La si potrebbe banalizzare così: fatto 1 il danno creato da un contenuto di odio/molestie/diffamazione mediamente virale sui social (e fatto 0,001 il danno teorico di qualsiasi contenuto analogo che non trova diffusione) il danno diventa 100 quando quel contenuto è raccontato in rete dai siti informativi giornalistici e diventa 1000 quando simili contenuti vengono esposti in forma di notizia sugli altri media generalisti (radio/TV). Ne consegue una cosa banale che ripetiamo da anni: il problema dell’odio in rete è fondamentalmente un problema di etica giornalistica.

Tutto questo con una postilla che se possibile aggrava ulteriormente lo scenario: mentre le dinamiche del passaparola fra pari in rete sono rappresentazioni di una nostra personale ed intrinseca debolezza, le dinamiche della selezione delle notizie sui media dipendono da scelte commerciali o politiche. In pratica se fra persone che discutono in rete la spazzatura è un problema di educazione individuale, per le persone che informano professionalmente la spazzatura è diventata un lavoro.

3 commenti a “La spazzatura social come lavoro”

  1. Bandini dice:

    Amen

  2. Giampaolo Armellin dice:

    […] la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica.
    […] l’esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà.

    Cit. https://www.odg.it/etica-le-regole

    Parole…

  3. Federico dice:

    Vero. L’hanno già dimostrato Yochai Benkler, Robert Faris e Hal Roberts per quanto riguarda le presunte colpe dei social nella polarizzazione e disinformazione politica.
    https://www.techdirt.com/2019/01/18/splinters-our-discontent-review-network-propaganda/

    Per questo sono radicalmente erronee le misure contro la misinformazione messe in atto dalla Commissione Europea, che si basano sul presupposto che i problemi siano interni ai social.

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