Marcel Proust muore a Parigi nel novembre del 1922. La prigioniera, la quinta parte della Recherche viene pubblicata l’anno successivo, nel 1923, a cura del fratello Robert. Tutte le parti de Alla ricerca del tempo perduto che seguono Sodoma e Gomorra (La prigioniera, La fuggitiva, Il tempo ritrovato) escono postume negli anni successivi alla sua morte. Ne La prigioniera, in fase di avanzata revisione mentre la sua salute sta peggiorando, Proust aggiunge, nel 1921, un capitolo che sarà poi al centro di molte attenzioni, quello sulla morte di Bergotte. Quelle poche pagine sono da tempo molto discusse per tre ragioni principali:

perché sono bellissime

perché parlano di un lembo di muro giallo in un quadro di Vermeer di cui poi si è discusso e scritto a lungo.

perché il personaggio di Bergotte – come spesso accade nella Recherche – rimanda fedelmente a Proust stesso. Molti degli avvenimenti descritti nelle ultime ore di vita di Bergotte sono l’esatto racconto di esperienze che Proust aveva fatto in quei giorni del 1921.

Così, pochi mesi prima di morire, Proust aggiunge al libro il capitolo sulla morte di Bergotte, il racconto (uno dei molti possibili) della sua morte, in un testo nel quale in fondo stava parlando d’altro. Una specie di inciso inatteso e significativo.

Esiste una quarta ragione per citare qui la morte di Bergotte, cercando di allontanarla un po’ dal feticismo contagioso dei biografi, e riguarda la cottura delle patate. Di quelle però – di questa questione non meno importante – dirò poi.





Proust amava Vermeer: quando lo scrittore viene a sapere che in una mostra a Parigi è esposta “La veduta di Delft” decide di andare a rivederla (l’aveva ammirata a l’Aia nel 1902). La Veduta di Delft – dice – è il quadro più bello del mondo. Marcel è in cattiva salute, non esce quasi più, dorme di giorno e scrive di notte. Chiede a un amico critico d’arte di accompagnarlo alla mostra (“Vuole accompagnare il morto che io sono e che si appoggerà al vostro braccio… gli scrive) lo stesso che poi pubblicherà la recensione alla mostra. Bergotte ne La prigioniera, volontariamente recluso in casa a causa dei suoi malanni, legge in una recensione su un giornale del famoso lembo di muro giallo in quell’opera, un particolare assai decantato dall’articolo e decide (anche lui) di uscire: è convinto di conoscere bene La veduta di Delft ma del muro giallo non riesce a ricordarsi. Deve quindi andare a controllare di persona, nonostante tutto, nonostante non esca dai casa da due anni. Prima di uscire mangia un piatto di patate poco cotte.




Sul lembo di muro giallo di Vermeer, se la faccenda vi incuriosisce come è accaduto a me a suo tempo, vi consiglio il breve bellissimo libro di Lorenzo Renzi pubblicato da Il Mulino una ventina di anni fa. Contiene tutto quello che occorre sapere al riguardo e molto di più. Un piccolo gioiello.

Sull’identificazione di Proust in Bergotte – una sorta di sottaciuto testamento letterario – valgono due cose: la prima è che Bergotte osserva finalmente il lembo di muro di Vermeer e capisce come la sua scrittura avrebbe dovuto essere e invece non è stata:

“È così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo”.


le seconda chiude il capitolo ed è l’immagine di cosa resti dello scrittore dopo la sua morte, ben poca cosa in fondo, solo una piccola notturna resurrezione (una previsione nel caso di Proust che non avrebbe potuto essere più sbagliata):


“Lo seppellirono, ma per tutta la notte prima dei funerali, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui che non era più, un simbolo di resurrezione”


Torniamo allora alle patate. Bergotte raggiunge faticosamente la mostra: di fronte alla Veduta di Delft , dentro quel lembo di muro giallo, comprende l’essenza della letteratura e poi si accascia e muore. Non subito, però. Durante il primo degli attacchi, mentre crolla su un divano circolare del museo, ha il tempo di considerare – ironia sopraffina – che spera di non morire proprio lì: gli dispiacerebbe trasformarsi – pensa – nella principale notizia della sera. Per provare a esorcizzare quanto gli sta accadendo dice a sé stesso: non è nulla, ora mi passa, è colpa di quelle patate che ho mangiato che erano poco cotte.

Proust detestava i medici (suo padre e suo fratello lo erano): pur seguendone con grande solerzia le indicazioni in fondo li disprezzava. Bergotte disprezza i medici, ne consulta moltissimi, cerca le contraddizioni nelle loro parole quando racconta loro i suoi sintomi. Le cerca e ovviamente le trova.

Cinquant’anni prima in fondo anche Tolstoj aveva affidato a Guerra e pace la sua scarsa fiducia nella classe medica:


“tre giorni dopo il suo arrivo, mentre si accingeva a partire per Kiev, si ammalò e dovette fermarsi per tre mesi a Orël; stando ai dottori, era afflitto da una febbre biliare. Sebbene i dottori lo curassero, gli estraessero il sangue e gli dessero da inghiottire delle medicine, ciò nonostante guarì lo stesso”.



Le patate poco cotte di Bergotte sono importanti perché sono qualcosa che è rimasto e che è giunto fino a noi in maniera perfino potenziata, nonostante i progressi della scienza medica (che continua ugualmente ad essere abbondantemente sbeffeggiata). Sono il nostro sguardo che scruta l’orizzonte alla ricerca di una ragione, qualsiasi essa sia. Sono il bisogno disperato di un rapporto di causa-effetto perché solo dentro una relazione del genere avremo la possibilità di salvarci. L’illusione che cuocere meglio le patate ci proteggerà dal mondo e dai suoi guasti. Non solo: ci accompagnerà al cospetto del lembo di muro giallo del quadro più bello del mondo e lì di fronte, in perfetto equilibrio, comprenderemo infine cosa siano l’arte, la letteratura e la vita.



Le parte citate della Recherche sono quelle della traduzione di Giovanni Raboni per Mondadori, 1989.



È impressionante notare come il teorema dell’asilo nido (le dinamiche della vita adulta si ripetono incessanti e sempre uguali per tutta la vita a imitazione delle prime interazioni sociali) si allarghi a macchia d’olio in ogni direzione.

07
Mag




(a joe berger cartoon)

Le ragioni di “opportunità” che consigliano i partiti italiani di schierare alle elezioni candidati di bandiera che una volta eletti non onoreranno il mandato sono le medesime ragioni per cui la politica italiana è stipata fino ai suoi vertici da così tanti mediocri piazzisti. Gente che vende idee, sogni e promesse di un mondo migliore come venderebbe auto usate. Il contachilometri è truccato, loro lo sanno e gli va bene così: tanto gli elettori alla fine le acquisteranno lo stesso.

A me Fabio Concato piace e mi sta anche simpatico. Per il resto il pezzo di Luca sul suo blog oggi è molto buono (titolo compreso). Lo ricopio qui perché so che siete degli sfaticati.


Stamattina, leggendo la Stampa, sono arrivato a due articoli a due pagine di distanza l’uno dall’altro. Uno era del direttore, che non ho mai conosciuto e di cui leggo alcune opinioni solo dal poco tempo in cui è direttore e in cui le esprime con frequenza. L’altro era un’intervista a Fabio Concato, che non ho mai conosciuto e delle cui canzoni non sono mai stato un grande fan. Dico le due cose rispettosamente, solo per sostenere – anche con me stesso – che non ho ragioni pregiudiziali favorevoli nei confronti di quello che possano dire Malaguti o Concato. Ma li prendo solo come ennesimi esempi ravvicinati di una delusione assai diffusa: Concato dice che “in questa Italia non c’è niente che mi rappresenti realmente”, Malaguti scrive di “masse inquiete, senza una bussola”, della sparizione del “popolo responsabile”.

Ora, non parlerò dei social network: i social network c’entrano, ma quello lo scrivono tutti ogni giorno. Dico una cosa che viene prima. Ed è che l’ignoranza peggiora le persone e le comunità, la conoscenza le migliora. Il “progresso” delle civiltà è avvenuto grazie all’educazione delle masse: espressione che uso senza timori, considerando me e chiunque parte delle masse. Gli umani nascono conservatori, geneticamente votati alla conservazione di se stessi, difensivi, timorosi del cambiamento, della novità, del diverso nelle loro vite. La scoperta, la ricerca – e quindi anche l’amore per gli altri e diversi, piuttosto che il timore – crescono con la conoscenza e la comprensione delle cose.

Cosa diavolo sto farfugliando? Sto farfugliando che la regressione civile a cui assistiamo, e di cui una parte di noi si duole, deriva da un’inversione di valori che ha portato a screditare la conoscenza, l’informazione, la cultura, a favore dell’ignoranza e della sua rivendicazione. Le persone – noi – diventano rispettose e amanti del prossimo, con tutte le sue differenze, man mano che si allontanano dall’ignoranza: ignoranza che oggi è fatta di due cose, non è più l’ignoranza vuota di analfabetismi e di assenze di informazioni di un tempo.
È fatta 1) di riempire la propria conoscenza di cazzate, e 2) di disprezzare la conoscenza che ci manca per non sentirsene umiliati. Quando si è detto “le tv di Berlusconi hanno rincoglionito gli italiani” l’errore è stato ridurre una questione assai più ampia alle sole responsabilità di Berlusconi, raccontandosi che il problema fosse Berlusconi (non lo era, come si vede). Ma gli italiani – e altri popoli altrove – sono stati rincoglioniti da quella cosa lì proclamata da ogni parte, dalla liberatoria narrazione che le cazzate fossero equivalenti alla conoscenza, le balle alla verità: lo sdoganamento di Alvaro Vitali, la battuta di Fantozzi sulla corazzata Kotiomkin, l’idea che “il popolo” (dove il popolo è sempre un eufemismo demagogico per definire le persone più ignoranti senza dirglielo) debba essere apprezzato nelle sue inclinazioni più basilari e animali, panem et circenses, il qualunquismo, “io non mi occupo di politica”. E al tempo stesso demolire il valore della cultura, della conoscenza, del sapere, sfottere gli “intellettuali”, avvilire ogni termine e contesto legato a questi concetti, “non accetto lezioni“, accusare di “spocchia” e “superiorità morale” qualunque impegno dedicato a trasmettere cultura, costruire una retorica di insulti per i “professoroni”, il “ditino alzato”, le “maestrine”, in modo da legittimare le proprie ignoranze.

Attenzione, con un concorso e una complicità gravi e gravemente responsabili. Qualche settimana fa, alla fine della proiezione milanese del suo film – il seguito di Ferie d’agosto, con gli intellettuali di sinistra nobili e noiosi e i cialtroni di destra caciaroni e simpatici – Paolo Virzì si è sentito fare questa domanda da uno spettatore, evidentemente di sinistra come lui: “ma non potevamo fare un po’ più feste anche noi?”. E per buffa coincidenza avevo sentito dire la stessa cosa in una conversazione pubblica a Cremona, a un evento del Post, tra Michele Serra e Matteo Bordone: un’autocritica sull’avere opposto al berlusconismo non una risposta concorrenziale e di sinistra al desiderio di leggerezza e allegria, ma una contestazione della leggerezza e dell’allegria.

Forse ormai è tardi, per questo, e io sono troppo vecchio per fare proposte: so fare solo osservazioni, e probabilmente di soltanto un pezzo delle cose. E quindi l’osservazione è che c’è in giro da tempo una regressione verso l’ignoranza, in parte inerziale, in parte strumentalmente incentivata, in parte vilmente consentita, che inevitabilmente genera gli andazzi che deprimono Malaguti, Concato, me, e molti e molte altre. Regressione che ha occupato le attività di grandi servizi pubblici radiotelevisivi, di commentatori salaci, di tweet e di pensieri: riportandoci verso gli stati di ignoranza che ci fanno essere conservatori e frenando la crescita di conoscenza che ci fa essere progressisti. Una domenica bestiale, e ogni giorno è domenica. E hai voglia a scandalizzarti per Vannacci: a noi umani piace quella roba lì, e se vuoi educarci ad avere gusti migliori devi educarci, come alcune meritevoli avanguardie hanno fatto per secoli prima che diventasse una brutta parola e che decidessimo di tornare da dove siamo venuti.


23
Apr

Ieri Libero ha riproposto nel titolo centrale di prima pagina la frase “Uomo di M.” dedicata allo scrittore Antonio Scurati. Era già accaduto nel 2022 che il medesimo foglio utilizzasse la medesima locuzione, nata da una frase di Alessandro Sallusti in TV. Il gioco di parole è esile e non vale nemmeno la pena sottolinearlo. Piace molto a questa gente – credo – perché è una maniera di insultare fingendo (molto esilmente) di non farlo. L’insulto del resto è l’armamentario dei mediocri. A Libero ci tengono molto, da sempre, a farsi riconoscere.

20
Apr

Questa cosa che i fascisti facciano i fascisti è davvero inaspettata

19
Apr

Ogni volta il medesimo pensiero. Le dinamiche della guerra come ripetizione sempre uguale dei confronti fra bambini nel cortile dell’asilo. Per le sopraffazioni infantili vige l’alibi della giovane età: per quelle degli adulti nessuna possibile scusa. Diventiamo grandi, e poi anziani e poi moriamo, senza essere mai cresciuti. Per tutto il tempo sottoposti al dominio dei nostri istinti peggiori.




Non ho informazioni certe al riguardo ma sono abbastanza sicuro che se esiste un dio (e quindi un’idea di giustizia, un’autorità misericordiosa, una qualche forma di Cassazione celeste), i creatori, gestori, programmatori del sito Trenitalia e, per sovrappiù, gli ideatori, i progettisti e i mettitori in opera della brillante idea del check-in online per i biglietti Trenitalia, stanno ora, in questo preciso istante, bruciando in un girone infernale a loro espressamente dedicato.