Ho letto di recente un pezzo davvero bellissimo di Domenico Starnone nel quale lo scrittore accenna a qualcosa che forse un po’ sapevamo già. Che ogni cambiamento, ogni deviazione di percorso, viene usualmente accolto da noi con tutto il pregiudizio e tutto lo spavento di cui siamo capaci e quindi, almeno sulle prime, osteggiato e criticato aspramente.

Starnone cita un’opera del 1552, I marmi di Anton Francesco Doni nel quale l’autore spiega come mai l’invenzione della stampa a caratteri mobili sarebbe stata una sciagura per la cultura:


Con Gutenberg c’era stato un terremoto: i semicolti si erano spacciati per colti, i piccoli talenti per grandi, leggere libri e farne erano diventate attività sempre più accessibili a gente con strumenti inadeguati. Citavo il Ragionamento della stampa che avevo trovato nella parte seconda de I marmi (1555) di Anton Francesco Doni.
Doni faceva dire al Coccio: “L’abbondanza dei libri ch’a fatto venir la stampa è stata cagione di molti inconvenienti”. Il Lollio chiedeva: “E quali sono questi disordini?”, Coccio rispondeva: “Prima, molte persone nate vilmente, le quali con maggior utilità del mondo si sarebbon date a di molti esercizii meccanici e degni degli intelletti loro, tirate dalla gran comodità di studiare, si sono poste a leggere; onde n’è poi seguito che gli uomini nobili e dotti sono stati poco apprezzati e meno premiati, e molti, sdegnando di aver compagni nelle scienze le più vili brigate, hanno in tutto lasciato ogni buona disciplina e così si sono marciti nell’ozio e nella lascivia. In questo modo è mancata la dignità e la riputazione delle lettere, e cessati anco i premii, poi che s’è potuto vedere la gran facilità e la poca fatica che è nel venire dotti e letterati”.


Doni ha ragione, anche con il senno di molti secoli dopo: Gutenberg ha abbassato l’asticella e i semicolti hanno iniziato a passare per colti. Da lì in avanti è stato tutto un precipitare perché non solo la vile brigata ha avuto accesso ad un mondo che le era negato ma ha saputo emergere e impossessarsi del potere. E negli ambiti culturali il potere si concretizza nella capacità di essere ascoltati, nel potersi ergere a curatori del mondo ad una vasta platea che si fiderà di noi.

A questo punto risultano chiari i due aspetti della questione che sono oggi gli stessi dei tempi di Gutenberg: l’accesso alle informazioni da un lato, presupposto necessario perché la cultura possa essere tramandata e raccontata, l’accesso al potere dall’altro, vale a dire la capacità, attraverso simili informazioni di dominare il mondo.

Scrive ancora Starnone:

Ora le lettere e le arti eravamo noi, la vile brigata. L’essenziale era saperlo e non montarsi la testa.



Per alcuni decenni, dopo la nascita di Internet, abbiamo immaginato che potesse esistere un punto di equilibrio fra conoscenza e potere: i colti e i semicolti avrebbero potuto convivere con le masse in un nuovo ambiente che consentisse la profondità di alcuni e l’amore per la superficie dei più. Non era forse questo un modello simile a quello precedente ai tempi digitali?

Condizione perché tutto questo potesse avvenire era che le informazioni fossero mantenute in piena luce, il più possibile libere e disponibili. Il testo, soprattutto, con una sua etichetta che consentiva il suo reperimento e che Internet chiamava URL, era fondamentale al perpetuarsi della conoscenza: lo è stato nei secoli passati dentro le biblioteche grandi e piccole e ha continuato ad esserlo in rete successivamente con i grandi progetti di digitalizzazione che tutti conosciamo.

Eppure il testo oggi viva la sua più profonda crisi dagli inizi della rivoluzione digitale. Va detto che la crisi del testo, il riaffermarsi di un’oralità torrenziale che oggi osserviamo ovunque (nei video di TikTok, su Youtube, nell’esplosione mondiale dei podcast, nella diffusione degli assistenti personali come Alexa) non è una mossa del potere nei confronti dei cittadini ma è una scelta spontanea delle persone che decidono, senza saperlo, di consegnarsi al potere. Una lunga serie di strumenti comunicativi alternativi al testo hanno così preso piede senza che nessuno se ne sia troppo preoccupato. Quella attuale è forse una fase di civile convivenza ma molti segnali indicano nel prossimo futuro uno scatto ulteriore verso un meccanismo di sostituzione. Quando Alexa risponde alle nostre domande su qualsiasi argomento si occupa in primo luogo del suo ruolo di interfaccia il più possibile naturale ma lascia totalmente opaca la fonte delle risposte che ci offre. Non hanno URL le risposte di Alexa, qualcuno le ha organizzate per noi ma noi non sappiamo né chi lo abbia fatto né secondo quali criteri. Ha un rapporto col potere Alexa? Noi non lo sappiamo e soprattutto sarà impossibile saperlo. Continuerà ad essere impossibile saperlo anche quando il potere si accorgerà di Alexa (se non se ne è già accorto). Quel giorno Alexa (o un altro fra i tanti PDA disponibili) comincerà a indirizzare la vile brigata con una grande precisione e un minimo sforzo.

Le interfacce come chatGPT di cui si parla moltissimo oggi e le molte altre che seguiranno soffrono del medesimo grande limite democratico. Appena esse si trasformeranno da esperimenti linguistici a strumenti della conoscenza (non è che manchi molto) chi controllerà i meccanismi con i quali alcune informazioni e non altre ci verranno offerte? Oggi per esempio chatGPT dichiara di utilizzare tra le sue varie fonti l’Internet Archive Books, uno dei molti, forse il più ampio esperimento di digitalizzazione delle informazioni fra quelli disponibili. ChatGPT entra per noi dentro un’enorme biblioteca ed ecco che in un batter di ciglia ha letto tutto. Quelle informazioni sono testo, per l’esattezza al momento oltre tre milioni di testi, e ognuno di quei testi ha un URL e dei metadati che aiutano chiunque lo desideri a controllarli. La funzione, tediosa e ripetitiva me ne rendo conto, di dominare le informazioni è l’esercizio del potere. Quando un simile controllo viene reso opaco (per semplificarci la vita, certo) ed affidato all’interfaccia, quando quell’interfaccia diventa dominante, il suo utilizzatore consegna il potere in mani ignote.

Rispetto ad una ricerca di Google o di Bing (cito Bing solo perché Microsoft con mossa astuta ha anticipato i tempi buttando i chatbot dentro le sue ricerche) che elenca per la maggior parte una lista di testi, ognuno con il suo URL annesso, le interfacce linguistiche, nelle quali l’illusione di stare discorrendo con un nostro pari particolarmente colto è una parte rilevantissima del meccanismo fiduciario, sono un ulteriore passo verso l’ignoto ed un ulteriore passaggio di testimone degli strumenti della conoscenza dalle mani di molti a quelle di pochi.

I pochi avranno in ogni caso molte gatte da pelare: per esempio OpenAI quando ha costruito il predecessore dell’attuale chatbot di cui tutti parlano, ha dovuto etichettare una vasta quantità di contenuti irricevibili, testi ed immagini violente, pedopornografia, e altri contenuti in qualche maniera accessibili in rete. L’intelligenza artificiale deve sapere oggi cosa domani dovrà trascurare e così un’inchiesta di Time ha scoperto che simili contenuti dell’orrore erano stati raccolti da una società in Kenia che pagava i suoi analisti un dollaro e mezzo all’ora. Questa storia, al di là delle questioni legate allo sfruttamento di lavoro sottopagato, apre uno squarcio sull’enorme lavorio che sta dietro la costruzione di un’interfaccia naturale e di come qualsiasi caratteristica di una simile interfaccia sia sottoposta a grandi continui aggiustamenti e adulterazioni. Aggiustamenti ed adulterazioni di testo. Potremo affidare il futuro della conoscenza ad una macchina simile?

Per anni i più ingenui fra noi, nel tentativo di arginare lo strapotere dei social network hanno domandato a gran voce che l’algoritmo che li governava fosse reso trasparente. Oggi, nella tipica euforia che avvolge ogni grande novità, le maggiori critiche che si leggono rivolte a chatGPT riguardano le conseguenze sul lavoro giornalistico o sugli studi universitari. Eppure il rischio maggiore sembra essere ben più ampio: quello di alienare la fatica del testo, di alzare una barriera fisica fra noi e il testo. Quando leggiamo un testo quel testo diventa nostro, qualsiasi esso sia. Qualsiasi informazione contenga quel testo viene filtrata attraverso di noi. È l’esercizio stesso del filtro che applichiamo al testo che è l’esercizio del potere. Quando questo meccanismo si interrompe, esattamente come avviene quando il numero di testi disponibili viene intenzionalmente ridotto, il potere, inevitabilmente, fluisce altrove.

Un commento a “Chatbot e potere”

  1. Andrea dice:

    Le chatbot sono molto meno avanti di quello che sembri.
    I corpora da cui attingono sono limitati all’esperienza web, basta poco per mandarle in crisi.