Quando muore qualcuno, specie se lo abbiamo conosciuto, qualcosa di indecente accade. Siamo addolorati e sconvolti, eppure, poco fa, la notizia di quella morte ci ha improvvisamente calmato. È ottobre, la contessa Tondelli è stata uccisa, ma noi siamo vivi e ne stiamo parlando. Fra poco onoreremo il lutto come potremo: alcuni esibiranno ampi gesti, altri rimarranno in disparte. Tutti assieme, un attimo prima, avremo recitato, sincroni e silenziosi, la più vergognosa delle preghiere laiche: un essere umano è morto, ma io no.



Qualche anno fa, quando scrissi queste righe, in un romanzo che è da qualche parte in un cassetto, pensai che quella espressa in quelle righe fosse una buona idea. Lo pensai ingenuamente, con la freschezza contagiosa degli stupidi; l’illuminazione, il compiacimento, tutto, per mia fortuna, rimase fra me e me. Ero convinto non si trattasse nemmeno solo di una “idea letteraria”, arrivai a considerarla un’intuizione davvero originale, uno di quei momenti un cui la scrittura esplora in profondità l’animo umano e ne ritorna alla superficie rinfrancata e carica di nuove informazioni.


Mi sbagliavo, certo, e nemmeno di poco.






Scrive, per esempio, Vitaliano Trevisan in “Un mondo meraviglioso”, pubblicato da Einaudi quasi vent’anni fa:


“Nella malattia altrui si esplicita la consapevolezza del nostro essere sani, nella disgrazia altrui la nostra fortuna, nella morte altrui la soddisfazione di essere vivi. Niente ci fa apprezzare di più la vita come partecipare a un funerale, pensavo camminando. Ora mi è chiaro perché mio padre non manca mai a nessun funerale, almeno da quando è andato in pensione”







Mi servì poi qualche altro anno per scoprire che alla mia originale intuizione da romanziere in prova Elias Canetti aveva dedicato un intero saggio, giusto mezzo secolo prima. Ci arrivai per vie traverse, come accade spesso in questi casi, ma in qualche modo il caso me lo fece incrociare. Quel testo diceva, con enorme profondità, tutto quello che c’era da dire al riguardo, molto più di quanto io avessi anche solo lontanamente immaginato.


“Non respira. Non si muove. È proprio morto. Subentra allora il terrore di fronte alla realtà della morte, che si potrebbe definire l’unica realtà, una realtà talmente inaudita che include in sé tutto il resto. Il confronto con il morto è un confronto con la propria morte, meno di essa poiché non si muore veramente, più di essa perché ce n’è sempre un’altra”.

“Il terrore suscitato dal morto quando giace dinanzi a chi lo guarda è compensato da un senso di sollievo: chi guarda non è lui il morto. Sarebbe potuto esserlo ma chi giace è l’altro”

“Ciò che dapprima era terrore trapassa in soddisfazione”

“Questo fatto è così orribile e nudo che lo si vela con ogni mezzo”.

“La situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere”

“La verità tuttavia non ha alcuna dignità. È tanto umiliante quanto fu annientatrice. Si tratta di una provata passione di chi ha il potere: il piacere che egli trae dal sopravvivere cresce con il suo potere, il suo potere gli consente di abbandonarvisi. Il contenuto vero di questo potere è la brama di sopravvivere a una massa di uomini.”



Dopo aver letto Canetti la prima reazione fu pensare che a quel punto tanto valeva non scrivere più nulla. Che qualsiasi cosa avessi scritto ci sarebbe stato in giro qualcuno che lo aveva già scritto meglio. È un po’ la stessa cosa che capita a un romanziere vero (non a uno “in prova” come me), a patto che sia dotato di senso del proprio limite (cosa che in effetti non sempre accade), quando legge Roberto Bolaño. Un senso di straniamento che dice: ma allora? Che cosa ci faccio io qui adesso? Che senso ha ora il mio lavoro?

All’euforia del “creatore” si era in me rapidamente sostituito il capo reclinato di fronte alla dittatura dei grandi talenti. Che un giorno arrivano nella piazza del tuo paese, mostrano le loro carte luccicanti e sbaragliano tutto.





Da un lato restano unaccounted (come direbbe Trevisan) altre parole, simili alle mie, sulla morte come segno del potere dei vivi (visto che nel giro di qualche anno sono casualmente inciampato in almeno un paio di osservazioni analoghe, e quindi non mi è difficile immaginare che altre, e molte, ve ne siano da qualche parte nascoste, altrettanto preziose e puntuali, tenute a ragionevole distanza solo dalla mia ignoranza), dall’altro lato verrebbe da pensare che una simile minuziosa contabilità potrebbe essere estesa a qualsiasi altro argomento.


Tutto allora è già stato detto? Vogliamo disperatamente utilizzare la biblioteca di Babele di Borges come scialuppa di salvataggio per la nostra scarsa originalità? Qualcuno, da qualche parte del mondo, sta scrivendo nuove cose sui morti e sui vivi meglio non solo di me ma anche di Trevisan o perfino di Elias Canetti?


. . .



A questo punto, per finire, la domanda è questa:

Giova a qualcuno una simile inevitabile ripetizione, che in ogni caso avviene comunque? Ha un senso la nostra ostinazione a provare ad intuire il suono e i colori del mondo quando in mille intorno a noi lo hanno già perfettamente registrato e cartografato o lo stanno per fare con una brillantezza che a noi sarà per sempre negata? Non otterremo, così ostinandoci, il solito effetto criceto nella ruota?

La risposta non può che essere sì. Giova. Vale la pena. Anche se evidentemente non sei Canetti, anche se, con ogni evidenza, non sei Bolaño. Anche se speri di non essere nemmeno il criceto.

Tutto si tiene, la florida produzione letteraria di un politico che si immagina romanziere o di un saggista senza idee che attraverso percorsi accidentati raggiunge comunque il suo pubblico; l’oscuro trattato del grande filosofo austriaco che leggiamo senza capire troppo e i realvisceralisti di Bolaño, Canetti e un romanzo giallo mai pubblicato dentro il quale, qua e là, luccicava qualcosa che ci era parso degno di nota. Tutto si tiene.

Poi quel luccichio forse non c’era. Poi invece, proprio per quello, forse c’era lo stesso. Fosse stato anche solo il riflesso ormai flebile di una luce lontana.

Tutto si tiene, tutto rimanda a qualcosa d’altro che abbiamo amato, dimenticato o che invece abbiamo appena scoperto. Intuire i suoni e i colori del mondo: a nessuno dovrebbe essere negato un tentativo del genere. Per scoprire alla fine che tutto rimanda a tutto il resto, attraverso percorsi sotterranei che ognuno di noi ha differenti da quelli di chiunque altro. È quella rete invisibile il suono e il colore del mondo.






Mentre sto leggendo l’ultimo dei libri di Gianni Celati che ho vorticosamente sfogliato dopo la sua morte, noto le insegne citate in maiuscolo in “Un paesaggio con centrale nucleare”, appunti presi mentre l’autore cammina a piedi dalle parti di Boretto ai tempi della fuga radioattiva di Chernobyl:

SNACK NIRVANA

IPERMERCATO

BRIO RUBINETTI

ABC CUCINA

IL PORCELLINO CARNE FRESCA DI MAIALE

CASITALIA PREFABBRICATI

ALFIERI DANIELE CAMINETTI E RIVESTIMENTI



e le associo, perché non mi è possibile fare altrimenti, a uno poesia di Aldo Palazzeschi, che, non a caso, si intitola “La passeggiata”, da me molto amata tanti anni fa e nella quale l’autore semplicemente elencava le insegne e le scritte che si ritrova intorno camminando per la città:

Lastrucci e Garfagnoni,
impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.
Via Fratelli Bandiera 50
già via del Crocefisso.
Saldo
fine stagione,
prezzo fisso.
Occasione, occasione! 55
Diodato Postiglione
scatole per tutti gli usi di cartone.
Inaudita crudeltà!
Cioccolato Talmone.
Il più ricercato biscotto. 60
Duretto e Tenerini
via della Carità.
2. 17. 40. 25. 88.
Cinematografo Splendor,
il ventre di Berlino, 65
viaggio nel Giappone,
l’onomastico di Stefanino.



Tutto si tiene, lo Snack Nirvana e l’onomastico di Stefanino.

Proseguo e più avanti nel racconto successivo di “Verso la foce” Celati a un certo punto scrive:

“Più avanti campagne vuote, molte case diroccate. Sotto l’argine alte erbe come in una prateria, una vecchia ingobbita raccoglie erba, e lontanissimo dei camion passano sotto un cielo plumbeo”. (pg. 60)



A quel “e lontanissimo” per un istante mi fermo. Quella sospensione intenzionale mi ricorda qualcosa che in quel momento non so. Poi qualche giorno dopo qualcosa si schiarisce ed eccolo ora in piena vista quel filo sottile che tutto tiene. E che silenziosamente conduce a una poesia di Raffaello Bandini, una delle poesie più belle che io abbia mai letto, che si intitola “Luglio” e che finisce così:

L’aria allora è diventata così leggera
che sul crocicchio sì è sentito pigolare
il campanello arrugginito di una bicicletta,
e laggiù, ma lontano,
volare un aeroplano sopra il mare.



. . .


3 commenti a “Quando muore qualcuno”

  1. Simone dice:

    Considerare la vita solo lungo l’ascisse della qualità ignorando completamente l’asse del tempo rende ciechi e presuntuosi

  2. Lele dice:

    e anche:

    Un aeroplano
    Nell’aria bionda e calda vola piano
    Lascia un bel mondo dal colore baio
    Dove c’è il fiume di gennaio

  3. Mammifero Bipede dice:

    In my beginning is my end. Now the light falls
    Across the open field, leaving the deep lane
    Shuttered with branches, dark in the afternoon,
    Where you lean against a bank while a van passes,
    And the deep lane insists on the direction
    Into the village, in the electric heat
    Hypnotised. In a warm haze the sultry light
    Is absorbed, not refracted, by grey stone.
    The dahlias sleep in the empty silence.
    Wait for the early owl.

    T.S. Eliot – East Coker (frammento)