Tuo zio è morto.
(aggiornamento dopo 10 minuti)
Forse tuo zio è morto
(dopo altri 10 minuti)
Secondo alcune fonti tuo zio è ferito grave
(dopo altri 10 minuti)
Forse tuo zio è ferito e forse no
(dopo ulteriori 10 minuti)
Caio Sempronio dice che tuo zio è morto
(dopo altri 10 minuti)
Caio Sempronio, uno psicopatico noto, ha detto che tuo zio è morto.
(dopo altri 10 minuti)
Giallo sulla morte di tuo zio che è stato visto al bar.
(24 ore dopo)
Nella giornata di ieri alcuni media avevano dato la notizia che tuo zio era morto.
(dopo una settimana)
Urge una tavola rotonda sulla qualità dell’informazione che è un presidio democratico in pericolo.





Quando una ventina di anni fa un papavero leghista mi fece convocare dalla Polizia Postale per un commento di un lettore del mio blog (era codesto papavero un cretino di fattura pregevole che mandava querele a chiunque parlasse di lui in rete) Daniele, al quale avevo chiesto consiglio, mi disse, forse un po’ mentendo: guarda dovevo giusto venire in Romagna per altre questioni, dimmi la data che ci andiamo assieme. Ricordo che quella mattina i ragazzi della Postale di Forlì furono molto colpiti che assieme a me ci fosse Daniele Minotti avvocato di Genova, uno dei maggiori esperti di diritto delle tecnologie in Italia. Da allora i nostri rapporti non si sono mai interrotti. Daniele è rimasto un uomo buono e generoso e soprattutto un amico. Qualche settimana fa mi aveva scritto di essere in ospedale in precarie condizioni di salute. Gli ho risposto che mi dispiaceva tanto e che ero sicuro si sarebbe ripreso presto.




Gira voce che oggi Matteo Salvini abbia in programma una gita da queste parti nelle zone colpite dall’alluvione. Fosse intelligente ci potrebbe ripensare. Quindi sono abbastanza sicuro che verrà.

Ho abitato a Forlì per quasi tutta la mia vita. Ora stiamo prevalentemente al mare. Forlì è una cittadina, ormai da qualche decennio, sgarruppata e lievemente deprimente. Eppure oggi, vedendo i video dell’alluvione, sebbene la nostra casa di Forlì sia in una zona risparmiata dalla furia degli elementi, mi veniva da piangere.

p.s. Il sindaco Zattini è stato bravissimo.
p.p.s I siti locali del gruppo Citynews (forlitoday, cesenatoday, ravennatoday ecc.) hanno fatto un lavoro informativo encomiabile, così come anche quelli del Corriere Romagna e del Carlino.
p.p.p.s Grazie ai moltissimi che oggi mi hanno cercato per chiedere notizie. Stiamo bene.

Esiste un filo sottile che unisce molte gesta dei componenti e dei palafrenieri di questo governo. Una traccia poco visibile che connette frasi apparentemente scritte da imbecilli senza cervello, loghi ministeriali che sembrano esperimenti grafici da seconda elementare, slogan orribili pronunciati con noncuranza da Ministri di prima grandezza; interviste di altri Ministri la cui prima preoccupazione, una volta esploso il patatrac delle loro parole in libertà sarà quella di dire: “non sapevo cosa stavo dicendo”, nella certezza che dire “non sapevo cosa stavo dicendo” sia una via di fuga onorevole per la propria reputazione; proposte di legge che sembrano scritte da Totò, punto, due punti, punto e virgola e una lunga sequenza di altri fatti, eventi, dichiarazioni, prese di posizione di analogo spessore intellettuale. Questo filo sottile rende il governo in carica unico nel suo genere, forse non tanto peggiore di molti dei governi che si sono succeduti in passato sulle questioni concrete, ma unico nella sua capacità di rendersi ridicolo con pervicacia agli occhi di chiunque abbia conservato una minima articolazione di pensiero.

Quel filo sottile è l’estetica del governo Meloni, un sentimento impalpabile, un tono di voce del resto impossibile da riconoscere per chi sia cresciuto dentro ambienti del genere; un senso di intima appartenenza al brutto che ti fa autenticamente domandare: “beh che ho detto di strano?”, “beh come è possibile che questo logo non vi piaccia?”, “beh davvero non posso twittare di tragedie e Milan nella stessa riga?

E’ l’estetica dell’orrore dentro la quale sei cresciuto, anzi quella che ti ha cresciuto, che partorisce indifferentemente frasi terribili, pensieri disumani e loghi di merda senza che nemmeno tu te ne renda conto. Ed è questo modo di vivere, naturale e automatico, ad essere la cifra inedita di queste persone. Fuori da ogni mimetismo, che fa tanto prima repubblica e quindi per questo andrà sdegnosamente rifiutato, l’estetica dell’orrore è il tratto dominante di questa gente che talvolta perfino un po’ se ne bulla. Dove l’orrore, in un arcobaleno di tonalità che va dalle frasi razziste alle gigantografie appese in salotto delle foto del proprio matrimonio, nemmeno resta poi solo il loro orrore, ma diventa anche l’orrore di molti altri, quelli che leggono quelle frasi, osservano quelle foto improbabili, quelle campagne promozionali da deficienti e dopo averle lette e guardate e valutate non ci trovano niente di strano. Che i problemi, quelli seri, sono come al solito altri.

Ecco di una cosa sono certo. Non è così. Niente e nessuno che sia permeato da un’estetica del genere potrà mai risolvere i vostri problemi. L’unica cosa che saprà fare egregiamente sarà aggiungerne di nuovi.

Quando avevo dodici anni correvo abbastanza veloce. Alle gare al campo di atletica della mia città mi classificavo sempre fra i primi. Per la verità c’era un mio coetaneo che mi batteva spesso ma insomma. Ero comunque, tutto sommato, abbastanza veloce. O così almeno mi pare di ricordare.

Così cominciarono a iscrivermi (non so bene chi, lo società sportiva, i miei genitori boh, io correvo e per la verità non è che avessi tutta questa passione per la corsa) a gare anche più lontano da casa mia, ne ricordo in particolare una a Bologna. Appena uscito dai confini del mio comune i miei risultati peggioravano sensibilmente. Anche solo a 50 chilometri da casa molti ragazzini come me correvano più veloci di me. Smisi di correre.

Ho ripensato a questa storiella della mia infanzia oggi leggendo del povero Ministro Lollobrigida e delle sue ormai reiterate uscite pubbliche sui temi della razza e dell’etnia italiana da difendere.

Lollobrigida, esattamente come Meloni, ha alle spalle un lungo percorso politico. Per molti anni, in consessi pubblici come quelli attuali ma molto più piccoli e omogenei in termini di identità politica, l’uomo è andato ripetendo le stesse cose che dice oggi. La difesa dei confini, la patria, la tutela degli italiani e dell’italianità, i rischi della sostituzione etnica.

Nel frattempo però il campetto di atletica di Lollobrigida è cambiato sotto i suoi piedi e lui non sembra essersene accorto. Nonostante questo Lollo stringe i lacci delle sue scarpe da ginnastica e ogni giorno si prepara a correre come un jet, esattamente come prima.

Ovviamente nessuno pretende che il Ministro cambi le sue idee che, per quanto misere, sono attualmente idee di discreto successo e sono, comunque, quelle che lo hanno portato fin dove è oggi, ma poiché è evidente che, per quanto riguarda la destra italiana, siamo ancora nella fase politica dei sottintesi, quella in cui le proprie idee potranno talvolta dar segno di sé ma andrebbero tenute un po’ al riparo, perché la loro indecenza è tuttora troppo ampiamente percepita, ecco che Lollobrigida non sembra davvero mostrare le caratteristiche del buon politico. Quello che si sveglia annusa l’aria e comprende al volo cosa vada detto e cosa no. Lollo mette le sue scarpe da ginnastica e corre.

La discussione sui rapporti dei sistemi di Intelligenza Artificiale con il lavoro intellettuale rischia di diventare interessante.

Non per gli aspetti tecnologici in sé, che da tempo e con insistenza hanno iniziato ad annoiarmi, anche nei rari casi in cui, effettivamente, si intravede lo spiraglio di una possibile mutazione in corso.

Nemmeno mi appassiona un’altra parte consistente della discussione di questi giorni, quella sulla liceità di gestione dei database digitali, discussione che, com’era ampiamente prevedibile, si è trasformata nel tentativo degli aventi diritto di difendere i propri spazi economici dalle pretese dei nuovi barbari. Da tempo ormai il copyright è leva nelle mani dell’industria dei contenuti: la tutela della proprietà intellettuale degli autori e degli artisti ha parentele con le norme che la regolano ogni giorno più vaghe e da almeno un secolo la gestione dei diritti d’autore è a tutti gli effetti un presidio conservatore. Così, in situazioni di inatteso stress dettate dal sopraggiunto interesse verso interfacce come ChatGPT o Midjourney, la primo reazione sarà quella di dichiarare al mondo il proprio possesso della palla e l’impossibilità di utilizzo della stessa da parte di questi nuovi strani giocatori.

La parte interessante della discussione – almeno per me – è oggi quella che la sospinge verso temi fino a ieri innominabili, suggerendo alcune domande sulla qualità del lavoro intellettuale, più in generale sui rapporti fra talento e manovalanza, fra arte ed artigianato.

Una delle frasi che si sente ripetere in questi giorni riguarda allora una specie di apotropaica autorassicurazione che in moltissimi sui media esprimono con calore e partecipazione. Il grande giornalismo, la grande letteratura, la grande musica, la grande fotografia, la grande pittura non rischieranno alcun effetto di sostituzione da parte dei sistemi di IA. Tutto il resto – ripetono tutti più o meno sottovoce – forse sì.

Così la prima domanda che mi interessa è: a quanto ammonta “tutto il resto”? Quanto del giornalismo, della letteratura, della musica, della fotografia, della pittura di cui quotidianamente ci cibiamo non è grande e potrà tranquillamente essere replicata (con minori costi e probabilmente anche meglio) dalla macchina?

Provo a ipotizzare un numero a caso, un numero di grande cautela, con tutto il rispetto e la comprensione che ho per un lavoro complicato e pieno di insidie come quello intellettuale: facciamo l’80%? Facciamo che 8 prodotti intellettuali su dieci potrebbero essere sostituiti dal lavoro di ChatGPT e i suoi fratelli?

Troppo? Troppo poco?

La seconda domanda, che è perfino più importante, non ha nulla a che fare con l’IA ed è: ma perché?

Intendo: perché lo facciamo? Perché continuiamo a consumare una quantità tanto rilevante di arte, cultura, letteratura ed intrattenimento di una qualità abbastanza bassa da poter essere domani sostituita da un software? Perché – e qui approdiamo in territori perfino più scabrosi e improbabili del metaverso del povero Zuck – perché non solo ci accontentiamo di tutta questa mediocrità ma anzi spesso la preferiamo con grande chiarezza e convinzione? Perché il talento, la cura, la poesia, l’innovazione e la bellezza sono una nicchia mentre noi siamo circondati da tonnellate di roba tutta uguale, assemblata con lo stampino da abili alchimisti del prossimo hit e con le iniziali del proprietario bene in vista? Perché insomma il grande lavoro intellettuale è uno scantinato umido e buio mentre allo stadio canta Ligabue di fronte ad un enorme pubblico pagante? (chiedo scusa a Ligabue, non ho nulla contro Ligabue, è solo un esempio fra i mille possibili)

Quando anni fa scrissi Bassa risoluzione mi colpiva questa ipotetica traiettoria verso il basso che sembrava riguardasse un po’ tutto e tutti, dagli oggetti tecnologici alle aspettative culturali delle persone. Mi sembrava allora (ma ero più giovane e meno pessimista) che ci fosse una quota di “non detto”, una distanza ampia fra il sentire comune di milioni di persone, che preferivano con ostinazioni soluzioni di downsizing tecnologico, assomigliando così a certe balene che in branco scelgono una spiaggia nella quale andare a morire, e l’interpretazione di simili scelte da parte degli esperti che le commentavano. La più banale di queste interpretazioni – ma forse anche l’unica e di sicuro quella buona per tutte le stagioni compresa l’attuale – era che il digitale e Internet ci stavano rincoglionendo come mai era accaduto in passato. Il bignamino di Bassa risoluzione ve lo risparmio volentieri ma questa idea della società balena depressa, un’idea che riprende vigore oggi a margine della discussione in corso sui sistemi di IA, è vecchissima e continua a convincermi poco.

Prendiamo per buono che l’80% del lavoro intellettuale sia Ligabue (chiedo scusa di nuovo) e che buona parte della discussione attuale sia curiosamente concentrata invece sul restante 20% di grandi artisti e grandi uomini e donne di cultura che sono indifferenti a simili perturbazioni tecnologiche; come a dire: il colpevole certo esiste, il rischio è dietro l’angolo, l’assassino è di sicuro qui fra noi, ma certo non sono io e non siete nemmeno voi. Ecco, allora, forse sarebbe onesto dire che noi tutti, non intendo i fini intellettuali sulla tolda di comando ma noi, intendendo quegli otto su dieci a cui piace Ligabue, nei confronti dei sistemi di IA sembreremmo belli e che spacciati.

A osservare con qualche minore ansia dovremo dire che – se davvero è così – siamo relativamente spacciati, siamo anzi spacciati oggi esattamente come lo eravamo ieri. Domani, sotto il giogo di chatGPT, la qualità della nostra personale fruizione intellettuale non si modificherà troppo. L’unica non trascurabile differenza sarà che una quota rilevante di lavoratori, grafici, musicisti, giornalisti, scrittori patirà una simile situazione, e questo dentro un paradosso che vale la pena sottolineare e cioè che quel lavoro, il loro lavoro, ora sostituibile e diversamente replicabile, era quello più bistrattato e contemporaneamente più appetito dalle masse. Un’industria culturale livellata verso il basso dalle richieste dei propri committenti. Talmente in basso, in termini di creatività e innovazione, da poter essere agevolmente sostituita da una macchina. Un paradosso, anche in relazione alle misere retribuzioni che quei lavoratori ricevevano in cambio, per lo meno in Italia.

Al proposito ho incrociato su Il Foglio una frase che mi ha colpito in un pezzo breve intitolato furbescamente “Solo gli autori scarsi temono l’intelligenza artificiale”:


Si creeranno pertanto due classi di autori: quelli che sono bravi e quelli che cambieranno mestiere.


Ora nulla è più fuorviante del lavoro intellettuale che si occupa di sé stesso, un sé stesso che osserva guardingo il vicino di banco e non vede altro al di là del proprio naso: il lavoro intellettuale parla (dovrebbe parlare) invece al suo pubblico, dovrebbe interpretare la società, provare magari ingenuamente a cambiarla, per finire poi magari come un Bianciardi che arriva a Milano e poi alla fine si chiude nella sua stanza con la bottiglia e la pila delle traduzioni da fare.

Per i destinatari dell’80% del lavoro intellettuale – compreso per i lettori dell’elzeviro del Foglio appena citato – non cambierà granché, mentre la domanda più importante (perché ci piace questa roba?) rimarrà di nuovo inevasa.

L’idea sospesa dietro a Bassa Risoluzione era che spesso quel valore che ci sembrava perduto, quella riduzione delle nostre aspettative che così decisamente sceglievamo di adottare, nascondesse qualcosa. Che a un osservatore più attento il valore che immaginavamo perduto ricomparisse altrove. Oggi non sono più tanto sicuro che sia così, ma il lavoro culturale affidato alla macchina lascia il mondo esattamente com’è e questo è un primo palpabile fallimento di cui forse varrebbe la pena parlare. La spinta rivoluzionaria che diventa canone. Abbiamo davvero scritto milioni di righe di codice perché tutto resti come prima, chiamando, oltretutto, questa roba “intelligenza”?

Allo stesso tempo non esistono dubbi sul fatto che il lavoro intellettuale, l’unico possibile, l’unico che possa essere definito tale, sia quello di oliare i meccanismi dell’intelligenza collettiva più che di quella artificiale. Nulla di particolarmente inedito ma ugualmente un’impresa dai toni eroici e misteriosi.

Per quanto mi riguarda il mistero più rilevante continua a non riguardare le potenzialità di chatGPT ma le ragioni per cui la nostra vita possa identificarsi con tanto frequenza in una canzone di Ligabue. Restando sempre in attesa che il valore che ci era sembrato perduto in Ligabue ricompaia come una scintilla da un’altra parte, magari anche per un solo istante ma in ogni caso sempre dalle parti del rocker emiliano. Forse l’abbiamo intravista con la coda dell’occhio, quella scintilla. Poi, ora che ci siamo girati, ecco che tutto sembra tornato buio. Sarà stato un po’ come sputare via il veleno.





Il mio parere al riguardo è noto ed è piuttosto distante da quello di Luca Misculin che è un giornalista che stimo.

La balla di Meloni è solo l’ultimo episodio di un processo fatto di moltissime balle precedenti, in genere più piccole, talvolta microscopiche ma ben organizzate, non per questo meno importanti. Disegna una tendenza ad un progressivo disvelamento (ogni abisso, mano a mano che lo si frequenta, assomiglia sempre di più alla normalità) ma non riguarda qualcuno in particolare. Da molto tempo (se non da sempre) il giornalismo in Italia è uno strumento del potere, lavora per il potere ed è supportato dal potere. La terzietà della stampa, insomma, il presupposto necessario perché essa possa reclamare per sé un ruolo dentro il meccanismo democratico, non è mai esistita. Questo nemmeno quando l’editoria era un business profittevole: ai bei tempi si facevano soldi accarezzando contemporaneamente i potenti amici.

I soggetti interessati in questa caricatura di sé stesso che è il giornalismo italiano (il quale talvolta prova ad ingannarci trasformandosi incidentalmente e solo per un istante in vero giornalismo nel momento in cui gli interessi del potere che lo sostiene svelano notizie e retroscena sull’avversario) sono evidentemente i tre soggetti citati da Misculin. Il potere che lo finanzia (la politica e l’industria, sostanzialmente) e ne regge le fila, i media che ne producono i contenuti ed i lettori ai quali una parte di simili contenuti sono rivolti. Dico una parte perché una quota sempre più rilevante di informazione non è rivolta a loro ma a soggetti rilevanti al di là della barricata. Molto giornalismo italiano è potere che parla ad altro potere.

Provare ad immaginare singole responsabilità dentro un meccanismo tanto potentemente distorto è complicato e probabilmente inutile. Il potere ha individuato un varco (pensate solo alla spartizione politica della TV pubblica o all’occupazione dei quotidiani quando ancora i quotidiani contavano qualcosa) e ne ha approfittato per fornirsi di un costoso megafono da far pagare talvolta ai cittadini, il giornalismo si è nascosto dietro la copertura della propria presunta autonomia (una autonomia che sappiamo inesistente) e del proprio ruolo di mediazione (che media in genere le istanze del proprio padrone e poco d’altro), il lettore è contemporaneamente vittima e carnefice del proprio destino. In parte perché non crede a quello che legge, perché istintivamente percepisce la distanza fra i propri interessi e quelli di chi organizza le notizie per lui, in parte perché non ha grandi aspirazioni informative (non le ha mai avute nemmeno quando i quotidiani vendevano centinaia di migliaia di copie ogni giorno), vive in un Paese da sempre culturalmente molto povero dove alla fine una notizia vale un’altra. L’unica sua forma di esistenza in vita è il vorticoso pendolare da un partito all’altro quando viene chiamato alle urne, almeno per quelli che ancora immaginano le elezioni come un esercizio della propria sovranità.

Le bugie di Meloni, espresse finalmente con un senso di liberatoria noncuranza, sono la fase attuale di questo cortocircuito, in un Paese nel quale esistono solo padroni e sudditi. Che il giornalismo in Italia sia fatto nella grandissima maggioranza dei casi da sudditi è un banale dato di fatto.


03
Mag




Pensavo che Silvio Berlusconi in relazione alla sua malattia avesse deciso di dimettersi da senatore. Poi invece era la solita questione delle persone che lavorano con le parole che non conoscono le parole.

Il gatto ha vomitato i fiori del terrazzo sul tavolo del terrazzo. Questo che vedete è il risultato. Il tavolo è in acacia (questo per la precisione). C’è in ascolto qualche ebanista anche amatoriale in grado di darmi qualche consiglio? Grazie.