Contrappunti su Punto Informatico di domani.
Davide Maria De Luca ha descritto sul Post la sua esperienza di utilizzo di Uber e di Uber Pop, i due servizi di trasporto a pagamento mediati dalla app di una startup californiana che stanno facendo imbestialire i tassisti di tutto il mondo. È un articolo interessante perché, per una volta, spiega i meccanismi economici che galleggiano dietro il modello di business di Uber senza arruolarsi nella battaglia mediatica che ha contrapposto nelle ultime settimane i sostenitori di Uber in quanto piattaforma di innovazione ed i suoi denigratori in quanto trucco in formato digitale che mina un ambiente economico consolidato.
Non è così interessante sposare una causa o l’altra: entrambe mostrano solidi argomenti e giuste indignazioni da portare a propria difesa. Più utile è invece provare a farsi qualche domanda in generale sulla sharing economy e sui suoi effetti macro sull’ambito sociale: simili incursioni sembrano ripetersi, attraverso i medesimi meccanismi, ogni qualvolta il contesto digitale incontra il mondo precedente.
Il punto di svolta, in ognuno di questi casi, vale per app come Uber, per siti web come AirBnb ma potrebbe essere applicato anche ai contesti economici che regolano il mercato dei contenuti, dalla musica ai libri, è quello legato alle tecnologie che abilitano i cittadini. Tecnologie che prima non c’erano e che oggi invece sono di fronte ai nostri occhi pronte per essere utilizzate.
Ciò che ieri era impossibile o complicatissimo ora diventa semplice e intuitivo, dentro una economia di scale vasta come il mondo e con una capacità di saltare o ignorare le norme esistenti che trasforma placidi pensionati o ragazzini imberbi in distruttori di contesto.
Il tessuto connettivo di questa innovazione crudele è ovviamente Internet. Volendo rimanere aderenti ai termini, quella che quindici anni fa chiamavamo new economy ora ha questa sua nuova possibile declinazione che tutti chiamano, con una certa soddisfazione, sharing economy. Ma se la new economy era una specie di sogno adolescenziale di riprogrammazione di un pacchetto di regole nel suo nuovo ed inedito formato digitale, in un contesto che ne mantenesse privilegi e prerogative, la sharing economy ne è la sua versione post nucleare. Quella dopo la bomba ed il disincanto, quella della presa di coscienza che Internet alla fine abilita tutti e non prevede una rendita di posizione per gli intestatari di licenza; quella secondo la quale gli effetti distruttivi sui modelli di business analogici in molti casi tendono inizialmente a prevalere (a dispetto delle analisi dei cultori del digitale buono) e solo più tardi, non sempre e spesso in misura ridotta, fanno da volano a nuove libertà d’impresa che migliorano le nostre vite di consumatori.
Ogni discussione al riguardo corre il rischio in ogni caso di essere sterile e fuori tempo massimo. Tutta questa roba non può essere fermata, regolarla è complicatissimo, esattamente come è complicato far pagare le tasse a Google, Apple o Amazon, solo che oggi i suoi effetti a cascata riguardano non più solo i giganti del web (la vecchia new economy) ma anche i singoli cittadini che arrotondano di notte la pensione improvvisandosi tassisti per le vie di Milano.
Come dentro un setaccio dalle maglie troppo larghe attraverso i fili della condivisione passa ormai di tutto, dai desideri di autopubblicazione di un romanzo che nessun editore avrebbe mai preso in considerazione e che diventa un blockbuster internazionale, alla discografia completa di Lucio Dalla, decenni di lavoro che la mia connessione in fibra scarica sul PC nel giro di pochi minuti. In simili contesti distinguere semplice umana condivisione fra pari dai contesti dell’economia della condivisione (forse sarebbe meglio dire “sulla” condivisione) è spesso complicato. Per esempio il car sharing ha qualche parentela con la condivisione, Uber Pop certamente è sharing economy.
Difendere Uber, intercapedine digitale geniale in un mondo nel quale immaginare nuovi spazi del genere apre spesso grandi opportunità per tutti, è una reazione quasi automatica, specie se ci è capitato in passato di avere a che fare con i tassisti delle grandi città italiane: sposarne interamente la causa, in quanto evoluzione digitale di un mondo che cambia, ha invece in sé qualcosa di non troppo intelligente.
Abbiamo cercato per oltre un decennio di tenere il dio denaro il più possibile distante dalle nostre umane relazioni di rete: il mimetismo attraverso il quale nuovi mercanti nel tempio cercano di estrarre soldi dalle nostre mediazioni sentimentali ha qualcosa che assomiglia ad una cinica strumentalizzazione. Un retrogusto amaro della nostra religiosa conversione al digitale che andrebbe in qualche misura sottolineata.
Giugno 15th, 2014 at 19:16
Ho provato anche a rileggerlo, ma non ho mica capito che cosa lei, Mantellini, sostenga con questi articolo.
Giugno 15th, 2014 at 19:31
Caro Namo Pinotti, se non hai capito cosa sostiene Mantellini, ossia che queste nuove declinazioni del digitale puntano alla mercificazione del tutto, ad esempio dei “passaggi in auto”, ad un livello ancora più capillare di quello che la società dei consumi aveva osato proporre sino a ieri, posso spiegartelo io via skype se solo mi dai 0.25 euro (sai com’è, devo arrotondare e la vita costa)
Giugno 24th, 2014 at 11:55
Mantellini fa rima con Gramellini