La scuola è un argomento sensibile. Sono i nostri figli, siamo noi com’eravamo una volta: la scuola è una fotografia del tempo che è passato e di quello che sta arrivando.
È un tema non solo italiano ma molto italiano, per ragioni peculiari nostre, che conosciamo e che non abbiamo bisogno di ripetere: una società intera costruita – a malapena – sulla famiglia come mattone che sostiene tutto.
Per questo la scuola è importante e la politica lo sa. Lo sa e la usa da sempre per tentare sintonie che altrove difficilmente riuscirebbe a creare. Non sempre gli riesce.
È in questo il motivo profondo, la ragione principale per cui la discussione di questi giorni sulla scuola in presenza o a distanza è una discussione falsa e interessata. Falsa e interessata, da qualsiasi lato la si provi a guardare.
Tutti ovviamente hanno titolo per parlarne. Come per ogni argomento cardine di questo Paese la discussione sulla scuola è ogni volta un’enorme macchia d’olio che si allarga. Tutti in fondo sono stati a scuola, oppure hanno un figlio a scuola, un padre insegnante, un aneddoto da raccontare. Tutti sappiamo come dovrebbe funzionare e come invece non funziona: tutti abbiamo avuto a che fare con la scuola, anche se quasi sempre non ne sappiamo granché.
Pochissimo ne sanno gli insegnanti, perché non è un buon punto di osservazione l’occhio del ciclone, quasi nulla ne sanno gli studenti, mentre i genitori paragonano tutto alla scuola dei loro tempi. Meno ancora ne sanno gli intellettuali che sulla scuola in genere sono in grado di organizzare i loro peggiori florilegi di supponenza. Dei politici sarebbe il caso di non parlare nemmeno: fantini in grado di saltare sopra ogni cavallo.
Ma allora, chi ha titolo per parlarne? Perché scrivi che la discussione fra scuola in presenza e a distanza è falsa e interessata se nessuno ne può parlare? Già, perché?
A marzo abbiamo chiuso le scuole in fretta e furia, senza sapere esattamente cosa stava accadendo. E forse abbiamo fatto bene. Se invece avessimo fatto male lo avremmo comunque fatto in buona fede. Non si può scherzare con una tempesta che entra improvvisamente in casa senza preavviso. Quando qualche mese dopo il vento si è un po’ calmato sulla scuola è iniziata in questo Paese una discussione tanto estenuante quanto inutile: come somari tutti abbiamo partecipato, tutti abbiamo detto la nostra. Come ogni discussione inutile si è diretta immediatamente verso i massimi sistemi: a noi italiani del resto interessa e affascina così tanto l’essenza delle cose, la banalissima, trita e pedante essenza inutile delle cose, che non sappiamo farne a meno. Così un compatto schieramento di insegnanti, politici, intellettuali, editorialisti e genitori ha iniziato a gridare che la scuola non è scuola se non si fa in aula, con tutti gli studenti uno accanto all’altro, il prof. la cattedra, i bidelli e tutto l’armamentario simbolico collegato. A questo si doveva tornare, ammonivano tutti, immediatamente e senza ripensamenti, perché solo quella, quella del gesso e del cancellino, era la scuola vera, la scuola scuola.
E poco importa che la domanda giusta non fosse quella, che questa contrapposizione artefatta e stupida tra tifosi della presenza e tifosi dell’assenza (sostituita dal digitale) non fosse nemmeno esistita, perché l’unica domanda concreta da farsi quando, verso maggio, il vento si era un po’ calmato, era un’altra ed era:
cosa facciamo se le cose tornano a peggiorare?
Cosa possiamo fare per la scuola dei nostri figli la prossima volta, se si sarà una prossima volta di un casino del genere, perché sai, molti dicono, anche se adesso è ancora maggio, che in autunno saremo da capo con gli stessi problemi che abbiamo giusto ora così malamente archiviato: un anno scolastico – per dire – perso ormai per quasi metà.
Cosa potremo fare – insomma – per non finire domani nella medesima condizione, con le stesse impotenze, le stesse enormi disorganizzazioni di oggi?
Solo che quella domanda, che oggi, mesi dopo, si ripresenta in tutta la sua drammaticità, allora non piaceva a nessuno. Non piaceva agli insegnati desiderosi di ritornare al loro tran tran, non piaceva ai genitori con i figli da sistemare per andare a lavorare, non piaceva agli intellettuali, così legati al proprio autoritratto novecentesco con barba e pipa in bocca e sguardo pensoso rivolto all’orizzonte e un’idea di scuola che non esiste più da raccontare sui giornali. Non piaceva soprattutto alla politica per una ragione ancora differente: perché era una scommessa troppo complicata. Perché se davvero la politica teneva alla scuola e alla sua centralità come continuava e continua a ripetere, avrebbe dovuto lavorare duro allora, mentre tutto sembrava ancora calmo. E al posto dei banchi con le ruote avrebbe dovuto assumere personale, acquistare autobus e navette, affittare spazi, rivoluzionare abitudini consolidate, convincere i sindacati, spendere miliardi di euro nell’attesa di qualcosa di indefinito. E avrebbe dovuto cablare in fretta e furia le scuole, formare gli insegnati, connettere le case degli studenti, fornire loro notebook e tablet in una lista lunghissima di cose da fare che non si sono fatte e che non si volevano fare.
Ora che la somma di tutte queste inadeguatezze è davanti ai nostri occhi, ora che la scuola in presenza porta il virus a casa dei genitori e che quella a distanza nella sua prevedibile emergenza funzionerà poco e male esattamente come a marzo e aprile, nulla è più fastidioso dell’ascoltare ogni giorno i medesimi soggetti dire le medesime cose sulla scuola scuola e su quanto loro hanno a cuore il futuro dei nostri figli. Ma se per i genitori e gli insegnati spesso è un problema pratico e se per gli intellettuali è come sempre un problema di abisso generazionale di gente che parla e parla di un mondo di cui non sa più un accidente da decenni, per la politica è una questione legata alla sua essenza di macchina per il consenso ormai del tutto scollegata dalla realtà. Solo che la realtà esiste ugualmente ed è oggi di fronte a voi con un messaggio breve ma tutto sommato chiaro: se vi resta un briciolo di orgoglio, lasciate in pace i nostri figli e andatevene.
Ottobre 23rd, 2020 at 06:33
In un marasma totale come quello che abbiamo di fronte, l’altro giorno, al consiglio di classe della quarta liceo classico di mia figlia, uno dei temi principali dibattuti era: come facciamo a organizzare le ore previste di alternanza scuola-lavoro quando non possiamo mandare gli studenti presso nessun ente? Cosa ci inventiamo dal momento che dal ministero non è arrivato alcun avviso che ci rassicuri del fatto che, a fronte della situazione, tali ore potranno essere cancellate dal programma poiché prive di senso?
A me pareva surreale.
ale
Ottobre 23rd, 2020 at 13:58
in questi giorni, a destra a sinistra al centro, tra politici impolitici scienziati astrologi informatici, l’unica cosa sensata potrebbe ripeterla Manzoni, “del senno di poi son piene le fosse”. Tutto quello che scrivete, anche tu Mantellini, PERCHE’ NON LO AVETE SCRITTO UN MESE FA?
Ottobre 23rd, 2020 at 14:26
@goffredo detesto citarmi ma questo l’ho scritto a maggio , sono più o meno le cose sulla Dad che leggi qui sopra https://www.internazionale.it/opinione/massimo-mantellini/2020/05/24/scuola-distanza-decreto-rilancio
Ottobre 23rd, 2020 at 14:34
da ex docente, informatizzato già nel 1987 e per 32 anni vanamente a diffondere la digitalizzazione, condivido in pieno…
ma come scrive il Parisi dei Lincei la scuola in presenza non è molto colpevole. E in ogni caso, paesi più saggi di noi stanno come noi. Solo la Cina comunista sembra ok. Deduzioni?
Ottobre 23rd, 2020 at 18:59
per Goffredo, una possibile risposta la trova qui:
https://www.overcomingbias.com/2020/09/the-world-forager-elite.html