Domani, magari, il linguaggio della politica potrà diventare un precoce segnale di un cambiamento in atto.
Si tratterà di un linguaggio che non assomiglierà a nient’altro. Sarà vecchissimo, in un certo senso, per l’adesione sotterranea a certe questioni formali oggi ovunque ridicolizzate. La gentilezza, per esempio. La calma, per esempio. Sarà invece moderno, per la sua pretesa di essere inclusivo senza essere tecnico, perché proverà a chiamare le cose con un nome, fuori da certe ellissi dialettiche della vecchia politica di un tempo. Ma – dovessi dire – io penso, prima di tutto, gentile: fermo e gentile.
La traiettoria discendente del linguaggio della politica è un tratto contemporaneo di questo Paese. Comprende tutti e non salva nessuno.
Per rimanere agli ultimi anni, quelli della sua velocità, prende spunto forse dall’ambigua sovrapposizione fra i vaffanculo del Grillo comico e del Grillo politico, attraversa il poetare provinciale di Nichi Vendola, giganteggia nel Renzi rottamatore e nella culona inchiavabile di un Silvio Berlusconi ossesionato dal sesso e dalla voglia di stupire.
La sua presunta efficacia prevede l’utilizzo costante di metafore calcistiche, che tanto piacciono agli italiani, ma anche il tragicomico metterci la faccia o l’autolesionista non indietreggiare di un millimetro. Piccoli sfumati segni del ventennio che timidamente ricompare.
Quello stesso linguaggio esclude qualsiasi collusione col nemico, le cui posizioni, su qualsiasi tema, economico, sociale o culturale, saranno sempre e comunque sbagliate e condannabili, perché il linguaggio serve una causa interiore, che basta a sé stessa e ignora per sua stessa essenza fatti e intelligenze. Nel parlamento italiano di Aldo Palazzeschi
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
Tumulto a sinistra, tumulto a destra“.
il consesso degli eletti, da destra a sinistra, si riunirà in una sola voce solo raramente, su questioni moraleggianti e senza ricadute pratiche (come per esempio il rifiuto della violenza di cui quello stesso linguaggio è padre putativo).
Il pane al pane del linguaggio della politica forse non è che un segno, ma potrebbe spesso essere considerato una causa: in ogni caso genera l’effetto inevitabile di trasformare chiunque, anche il laconico Beppe Sala, in un rottweiler da combattimento, magari sfiatato e senza convinzione, ma pur sempre troneggiante nell’arena.
Se anche il colletto bianco a un certo punto pubblicamente si rompe le palle, se Berlusconi accennava senza imbarazzi agli elettori dando loro dei coglioni, se Di Battista chiama i giornalisti puttane e Salvini sonda l’intero dizionario 5 volte al giorno alla ricerca di metafore cafone da pubblicare sui social, allora forse il linguaggio, domani, potrà diventare un segno.
Forse, domani, tutti quanti, giovani e vecchi, ci stancheremo di una tale miseria intellettuale, la pianteremo di dare credito a gente senza gentilezza (la gentilezza per tutti costoro nessuno escluso è un disvalore, la politica come battaglia), essendo gente che non arretra di un millimetro, che ci mette la faccia, che dichiara di proseguire pancia a terra.
Forse domani, tutti quanti, giovani e vecchi, ci stancheremo di questa folta schiera di politici pancia a terra e l’unica pancia a terra che potremo tollerare sarà quella di un vecchio poeta americano sulla tomba di un bambino:
The only response
to a child’s grave is
to lie down before it and play dead
Forse.
Novembre 13th, 2018 at 18:42
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere
partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e
partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è
vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza
opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma
opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che
sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti;
è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede,
il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli
uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi
che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere
uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra
l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da
alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la
massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra
sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno
naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha
voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano
pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto
anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è
successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone
quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere
inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura
che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che
succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa
nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono
partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”
(Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917)
Novembre 15th, 2018 at 07:20
Io lascerei riposare in pace Gramsci, citarlo a questo proposito è solo una banalizzazione (e c’entra poco o nulla).
Ma forse anche questo è un segno dei tempi.
Novembre 30th, 2018 at 16:08
[…] deprecabile linguaggio senza gentilezza della politica […]