Fra le statistiche che non conosco, ma che mi piacerebbe leggere, c’è quella degli italiani sotto i 25 anni che leggono i giornali di carta. Sospetto siano numeri significativi. Forse perché quando avevo vent’anni io a casa mia un quotidiano arrivava: lo sfogliavamo per arrivare alle pagine dello sport, magari un’occhiata alla cronaca locale. Non esisteva Internet, le notizie si trovavano lì, alla radio o nei telegiornali della Rai.





Una stima del Censis (ottobre 2017) piuttosto precisa però esiste lo stesso. Negli ultimi dieci anni i quotidiani cartacei hanno fatto meno 50%. La stessa indagine ci racconta anche un altro dato correlato molto importante: la lettura delle news online, mentre la carta affondava, è aumentata nell’ultimo decennio in maniera molto modesta (+4%).

Torno alla stampa cartacea che oggi è un argomento rilevante. Per due ragioni: perché i giornali di carta in Italia sono di modesta qualità e perché, contemporaneamente, nella loro ampia imperfezione, sono rimasti l’ultimo baluardo ad un’etica dell’informazione che sostenga la democrazia.
Certo, parole come pluralismo e democrazia, quando si tratta dei temi dell’informazione, andrebbero maneggiate con cautela, editori e giornalisti ne abusano da tempo in maniera spesso imbarazzante: meno sono etici e informativi e più se ne riempiono la bocca. Nonostante questo il punto resta: oggi la stampa cartacea è rimasto uno degli ultimi presidi democratico di questo Paese. Nonostante sia di modesta qualità, nonostante non la legga ormai quasi nessuno.

E questo accade per una ragione banale: perché tutto il resto è peggio, spesso molto peggio.





I siti web dei grandi editori, quelli che erano nati come omologhi delle versioni cartacee, si sono lentamente trasformati, pressoché ovunque, in un deposito di chincaglierie, notizie non controllate e (quando va bene) pettegolezzi: nelle loro versioni mobili (oggi oltre la metà delle persone accede ai siti informativi dallo smartphone) l’affollamento e l’aggressività della pubblicità rendono di fatto illeggibili gli articoli, nelle versioni desktop l’unico criterio di notiziabilità è quello legato al numero di click che un titolo, un virgolettato inventato, una foto curiosa o terribile, o un video rubato su Youtube, riescono a fornire. All’aumentare dei click si riduce la qualità giornalistica e con essa il ruolo etico dell’oggetto digitale che un tempo chiamavamo “giornale”.

I siti di notizie nati sul web non se la passano molto meglio. Crescono lentamente, seguendo il diagramma del Censis e la scarsa attenzione degli italiani per le notizie nei formati digitali, producono pochi ricavi (nei migliori dei casi si ripagano i debiti, pagano gli stipendi e poco più), in alcuni singoli casi mettono assieme successi momentanei accettando un prezzo altissimo di dipendenza da Facebook e di scadimento della qualità giornalistica. La mediazione illuminata fra traffico e qualità (il cosiddetto modello Buzzfeed, posto che ora nemmeno Buzzfeed si sente tanto bene) non sembra funzionare troppo. I pochi esperimenti di paywall presenti in Italia, schemi di guadagno pensati per sfuggire al modello dell’advertising, per quello che è possibile capire (nessuno diffonde volentieri i propri pessimi numeri), sono stati fino ad oggi mediamente fallimentari. Fuori dall’Italia funzionano pressoché solo per realtà grandissime e di grande qualità.

Non dimentico alcune realtà anche italiane capaci di produrre contenuti di qualità o di finanziarsi con sistemi alternativi a quello della pubblicità display, ma si tratta di fenomeni talmente piccoli in termini numerici da essere ad oggi di fatto ininfluenti nel panorama italiano generale.

Il giornalismo dei cittadini, nelle sue varie forme immaginate in questi anni, va mediamente male in tutto il mondo, da noi di fatto non è mai nato: i blog (e soprattutto i blogger, quei pochi che avevano contenuti interessanti da offrire ai lettori) sono morti da anni senza aver influenzato granché l’ambiente informativo complessivo. L’ambiente informativo stesso, nel frattempo, si è ampliato a dismisura e comprende ormai moltissimi soggetti diversi, ma le notizie sui social network e su siti web non editoriali hanno di fatto cannibalizzato i media professionali senza produrre molto d’altro.
Così oggi in Italia le persone leggono buona parte delle notizie durante la giornata quasi esclusivamente su Facebook (o su rimandi dentro le chat private di Whatsapp che provengano in buona parte da Facebook). Sono notizie in genere di scarsa qualità, facilmente adulterabili, sottoposte alla dittatura dell’effetto wow, limitate quasi sempre solo ad un titolo che colpisca o a una affermazione superficiale e lapidaria.

Altro non c’è. Il risultato finale di questo ultimo decennio di informazione è che dentro un sistema che ha perso gran parte della propria autorevolezza (per responsabilità proprie e di sistema) l’unico bastione attualmente ancora in piedi, almeno solo parzialmente, è quello della stampa cartacea. Se me lo avessero detto dieci anni fa mi sarei fatto una bella risata.




La parabola discendente dell’informazione in Italia è sotto i nostri occhi. È accaduto che, nel momento in cui i cittadini si sono trovati immersi nell’overload informativo tipico degli ambienti digitali (diciamo dal 2010 in avanti, dal momento della grande crescita di Facebook in Italia), senza gli strumenti culturali né la voglia di apparecchiarsi una personale dieta mediatica, i media professionali hanno scelto di ridurre la propria autorevolezza. Hanno affrontato le sfide del mercato asfittico dell’informazione disinteressandosi della qualità per i loro lettori. Così le distanze culturali, di responsabilità e accuratezza fra i media professionali digitali e la nostra colonna delle news di Facebook, una colonna dentro la quale compare ormai di tutto, indipendentemente da chi siano i nostri “amici”, sono andate costantemente riducendosi, fino a rendere i giornali online e il nostro feed sui social network due oggetti molto simili.





L’informazione televisiva ha subito un processo in parte analogo. Il nuovo lettore predilige forme semplificate di informazione-intrattenimento e confonde volentieri programmi come Le Iene o Striscia la notizia con il giornalismo (Le Iene assomiglia di fatto, per temi e approfondimenti al nostro feed Facebook) o affida il proprio chip informativo quotidiano ai talk show televisivi di prima serata, mentre la fetta più anziana dell’audience TV continua a guardare il TG1. E questo oggi, paradossalmente, esattamente come per la stampa cartacea, è il male minore.
Anche l’offerta “informativa” della TV e quella dei formati digitali hanno oggi molti punti di sovrapposizione: sposano un’idea di lettore/ascoltatore che è la medesima.

La domanda principale da farsi oggi, un quesito importantissimo, è se questa decadenza, tanto chiara di fronte ai nostri occhi, abbia avuto un ruolo nel proliferare di posizioni antiscientifiche, disinformate o populiste come quelle di cui si discute molto volentieri quando si parla di fake news. È molto difficile dirlo e credo che di nuovo, anche qui, nessuno abbia le statistiche adatte. Ma se i giornali hanno sceso qualche gradino verso i propri lettori, se si sono fatti conversazione (per citare un vecchio adagio) nel senso peggiore del termine, vale a dire assomigliando sempre di più alle chiacchiere delle nostre piazze e dei nostri bar, allora forse immaginare una correlazione non sarà troppo sbagliato. Rotti gli argini della propria autorevolezza tutto poi diventerà possibile.

Questo passaggio di riduzione tecnologica, che io chiamo da tempo Bassa Risoluzione, non riguarda solo l’informazione, ma molti altri aspetti della nostra nuova vita connessa e disegna forse una tendenza generale che riguarda in primo luogo noi stessi. Le colpe dei lettori sono insomma chiare e ben identificabili. Ma quelle del sistema informativo professionale, specie nel momento in cui associamo le notizie ad una nostra idea di cultura e democrazia, sono una variabile italiana che è impossibile non notare. Un contesto nel quale i giornali gareggiano verso il basso con i loro lettori.

Se tutto questo è vero non sarà sufficiente affermare la distanza ormai siderale fra i media e la democrazia ma saremo costretti ad immaginare che dentro una simile traiettoria i media stessi giochino oggi un ruolo chiave nella sua decadenza.


update 24/12. Gaspar Torriero ha prodotto un grafico dei lettori dei quotidiani cartacei (riferito agli USA) fino al 2030 molto esplicativo. Quando si dice un business declinante. Grazie.




8 commenti a “I quotidiani sono conversazioni? (2007-2017)”

  1. Gaspar dice:

    http://www.journalism.org/media-indicators/newspapers-daily-readership-by-age/

  2. Emanuele (l'altro) dice:

    Troppo lungo, mi sono fermato alla 5a riga.

    Scherzo, stasera non ho tempo per affrontare questo argomento, domani o dopodomani ci provo.

  3. alessandro dice:

    il problema dei giornaloni e’ che hanno sezione marchette nemmeno troppo velate, son stati loro i primi a scendere al ribasso e non si sale piu ora
    io mi chiedo quanto spendano al mese di promo gente come la ferragni, belen, e socie (la canalis gliel’ha data su pare) per avere continuamente un trafiletto sulla destra che parli di loro… sarei curioso di quantificare in soldoni quanto percecisce corriere e repubblica per copiare la press quasi quotidianamente

  4. paolo de andreis dice:

    A margine mi sentirei solo di evidenziare l’ovvio, ossia che i giornalisti sono a volte giornalisti ma gli editori che devono stare sul mercato sono sempre imprese.
    Tolte le distorsioni sul mercato dell’informazione causate per decenni dalle prebende di derivazione politica, veri e propri vitalizi, nel senso che hanno tenuto in vita a volte per decenni fogli che nessuno leggeva, superate le turbative create dal sistema dei rimborsi, i flussi pubblicitari hanno assunto un ruolo via via più determinante nell’interesse editoriale col calare sui vari canali dell’utenza pagante.

    La possibilità di acquistare interi servizi pubblicitari mascherati da informazione nasce molto prima di Internet e dà vita all’informazione tv, ma è con internet che – complice il cambio di paradigma dovuto al clic autarchico dei lettori -raggiunge nuovi livelli, solo in rete infatti i grandi concessionari pubblicitari, intermediari tra investitori e informazione, acquisiscono il potere non solo di mandare fuori mercato l’editore che non piega il prodotto informazione alle loro esigenze ma persino di determinare la forma e le modalità dell’informazione. Su tutto questo – una bara tutta raso e radica per il Giornalismo – si è poi innescato il cosiddetto social, che di sociale naturalmente non ha nulla perché privo di comunità, i cui effetti devastanti sulla contemporaneità iniziano ad evidenziarsi solo adesso, e a dir la verità non solo.qui da noi, dove il terreno della deresponsabilizzazione civile da Bentham in poi risulta particolarmente fertile.
    Oggi i flussi di investimento seguono cloache a cielo aperto e si mescolano a fanghi maleodoranti, basta vedere dove conducono per predire almeno qualcosa del futuro a breve e forse persino a medio termine.

    Viviamo in un mondo che misura l’utilità di tutte le cose in denaro, come se tutte le cose fossero misurabili per la loro utilità, creando quindi un metro di misura che inganna, in più col tempo il denaro diventa finanza e si produce da sé scollegandosi anche da quell’inganno iniziale, ma questo ancora non ci basta per mettere in discussione il rapporto fasullo tra denaro e realtà, e ci vuole forse meno di una scienza per mettere in relazione questa epocale trasformazione del nostro rapporto col reale e l’inabissarsi della necessità che l’informazione sia di qualità.

  5. il blogger delle undici dice:

    Vabbè è ormai acclarato come la neve d’inverno che a Mantellini Le iene non piacciono. Ma paragonarlo ai feed di facebook significa scoprirsi come faziosi (c’è dietro un lavoro serio, che ovviamente al piddino buonista può non piacere). Se proprio si dovesse fare un j’accuse all’informazione italiana i primi due responsabili (e parliamo di organi con milioni di utenti) sono i giornaloni piddini (ma non necessariamente di fede renziana, da quando c’è il Gentiloni): ossia La Repubblica e il Corsera, due anestetici cartacei; ma con zenith di esagitazione non indifferenti, quando si parla di Movimento 5 stelle. Eh già, si capisce il nervosismo di Mantellini e compagnia scrivendo, nel sapere che tra settanta giorni urne certificheranno crollo piddino.

  6. Erasmo dice:

    Difficile dar torto al blogger delle undici, salvo che, forse, si figura una distanza che non c’è fra Cairo e i 5 stelle. Cairo capitale dell’Egitto? Ma no.

  7. Pier Luca Santoro dice:

    Un po’ di dati su realtà italiana, ad integrazione dei dati che proponi:

    1) 20 Anni di Vendite dei Quotidiani in Italia – http://ow.ly/Shso30hrG6C

    2) Readership quotidiani italiani – http://ow.ly/EdZE30hrG8F

    3) In Italia per i quotidiani ruolo sempre più marginale – http://ow.ly/WJ8730hrG9D

  8. Visto nel Web – 320 | Ok, panico dice:

    […] I quotidiani sono conversazioni? (2007-2017) #:media ::: manteblog […]