Lo so che vi siete stufati (anch’io mi sono stufato) ma per chiudere la faccenda Google-La Grande Bellezza pubblico questo contributo che mi ha mandato Andrea “Camillo Miller” Nepori che ho trovato molto interessante. Grazie Andrea.
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Sei punti sulla questione Google e La Grande Bellezza. Ovvero: Google e la pretesa di misurare la qualità.
1) Spoiler: Hai ragione tu.
Il mio parere, lo scrivo subito, è che hai ragione tu. Esiste un fideismo strisciante nelle possibilità infinite di Big G, non troppo diverso dal fideismo Apple/Android, che genera inevitabilmente giustificazioni da parte di chi “crede” (perché di credere si tratta) nella strategia di Google e ritiene di farlo perché “sta dalla parte dell’innovazione”.
2) Google è ipocrita?
C’è un aspetto importante e più profondo che spesso non viene fuori: l’ipocrisia latente di Google. Un’azienda che gestisce miliardi di ricerche globali ogni giorno, predica la openness sul mercato mobile ma non svela nulla dei suoi algoritmi (che danno forma al Web per milioni di persone ogni giorno), affida la sua comunicazione tecnica in ambito Search ad un unica persona (Matt Cutts) che ha ormai assunto un’aura messianica, dà risposte sibilline e ripropone costantemente il mantra del “create compelling content that people want to read and share”.
Molti “SEO expert” risponderanno che non è vero, che Google fornisce linee guida per definire molto bene cosa sono secondo Mountain View i contenuti di qualità. Altrettanti SEO potranno rispondergli con esempi concreti di come questi criteri vengano disattesi in una miriade di casi. Il tuo esempio va proprio in questa direzione. Forse che le recensioni citate da te non sono qualitativamente superiori a tutta la fuffa che viene prima di esse? Eppure stanno in n-esima pagina per la chiave secca. Rispondere che sei tu a dover affinare la ricerca equivale a nascondere la polvere sotto il tappeto: la realtà di quei risultati è che delle pagine con contenuti di qualità culturale elevata (secondo il tuo giudizio) sono sommersi da contenuti qualitativamente inferiori (sempre secondo il tuo giudizio) ma “migliori” per gli algoritmi di Google.
Google non ti sta forse imponendo la SUA visione di qualità?
Volendo astrarre dall’esempio concreto basta porsi questa domanda: come può pretendere Google di oggettivare e rendere assoluta “la qualità” con delle semplici linee guida?
3) Chi decide cos’è la qualità?
Stiamo parlando di un’azienda privata che può fare quello che vuole con il suo prodotto, questo è certo. Ma è un’azienda privata che controlla uno strumento che “è il Web” per la stragrande maggioranza degli utenti. Mia madre dal suo iPad o la proverbiale casalinga di Voghera non sanno distinguere tra Internet, il Web e Google. E lo stesso vale per milioni di altri utenti che non appartengono alle nostre nicchie tecnologicamente educate (e minoritarie).
Il risultato è che i cambiamenti tecnici imposti da Google sono cambiamenti culturali, che lo vogliamo o no. E’ una questione che vedo discussa un po’ poco, sinceramente. Forse perché i SEO sono giustamente interessati ai tecnicismi puntuali e al “ranking” delle pagine dei loro clienti, mentre a chi affronta il problema da un punto di vista più globale magari non interessa addentrarsi nei tecnicismi che questo tipo di analisi necessariamente comporta. Da questo punto di vista le tue riflessioni sono una boccata d’aria e una prima presa di coscienza.
4) La svolta di Larry e Sergey
Qual è la scaturigine di questo cambiamento di strategia? A mio parere dobbiamo risalire al momento in cui Larry Page e Sergey Brin hanno sostituito Schmidt al timone di Google. Si sono messi in testa di semplificare, di imporre una vision diversa e di impostare strategie culturali (e quindi meno comprensibili da un punto di vista prettamente “capitalistico”) che facessero cambiare rotta rispetto alla scelte del vecchio CEO più “corporate”. Non approfondisco oltre, perché si aprirebbe una parentesi troppo ampia.
5) La lingua conta
Questa strategia (quality content, autorevolezza come metrica, ecc…) ha più o meno funzionato bene per la lingua inglese e continua a dare buoni frutti, a tratti in maniera encomiabile (vedi caso recente di Rap Genius, penalizzato duramente per aver utilizzato schemi di link). Rimane il problema di fondo: è il Leviatano del Web con sede a Mountain View a decidere che cosa è qualità e cosa no, di fatto imponendolo a milioni e milioni di utenti nel mondo. Per lo meno su Google.com è abbastanza chiaro che a finire in basso nelle ricerche sono gli aggregatori e i siti di pessima qualità zeppi di ads e pop-up truffaldini mentre rimane in alto una “crema” abbastanza buona e autorevole. Ci sono comunque casi ambigui e problematici anche in lingua inglese.
Quanto al successo della suddetta nuova strategia all’interno di Google Search in lingua Italiana, beh, diciamo che attendiamo ancora ampi margini di miglioramento.
La “migliore” recensione della Grande Bellezza per parole chiave, titolo, link ricevuti, che poi magari è zeppa di errori d’ortografia e di battitura, può considerarsi il contenuto qualitativamente più meritevole? L’articolo di un quotidiano online che per autorevolezza viene mostrato per primo quando cerco informazioni su una data notizia, ma magari la riporta in maniera errata, è necessariamente ciò che voglio leggere? E via così. Ce ne sarebbero centinaia di domande da farsi e da fare a Google. Che non risponderebbe se non ripetendo il mantra: “quality = compelling content”.
Il mio parere su questo punto è che gli algoritmi sono cuciti su misura per la lingua inglese e vi sia una perdita di efficacia con lingue a complessità maggiore come l’italiano (ma poiché sono algoritmi segreti non c’è modo di capire se è davvero così).
Un altra possibilità, espressa indirettamente anche da Leonardo, che tu citi, è che in Italia manca una vera cultura del link e dell’attribuzione. Se io creo un contenuto di qualità, secondo Google, il risultato saranno condivisioni e link da parte di altri che hanno apprezzato il mio contenuto. Matt Cutts, nei suoi video, lo ripete ad nauseam.
Per le pubblicazioni anglosassoni, nulla da eccepire. In Italia, al contrario, questo meccanismo non avviene praticamente mai, o molto raramente. Nel caso di pubblicazioni “a fini di lucro”, poi, a linkare (lo scrivo con cognizione di causa) sono principalmente gli aggregatori che rubano contenuti tramite i feed rss. In altre parole, una pratica fondamentale per comunicare a Google la rilevanza di un contenuto è praticamente assente (o molto limitata) nel nostro mercato.
Ora generalizzo consapevole di generalizzare e dico: siamo il paese delle grandi testate online che rubano i video da YouTube, non linkano le fonti originali delle notizie e non conoscono minimamente la Netiquette. E’ giusto pensare che il riconoscimento della qualità possa passare per la condivisione e il linking?
6) Dalla padella alla brace?
La necessità di trovare modalità alternative per far girare i contenuti e generare page views ha spinto i grandi siti internazionali a battere altre strade.
Twitter e retweet, come già dici tu, Facebook e le condivisioni. Ma anche il successo di meta-aggregatori come Reddit, con il suo sistema di upvotes e downvotes, è in buona parte imputabile a questa necessità.
Nell’ambito più strettamente tecno-geek Hacker News è un’altra fonte analoga che propone contenuti la cui qualità è basata su un sistema di voto da parte della community.
In altre parole, però, significa che una volta scrivevamo per i motori mentre oggi scriviamo per i social o per adeguarci al “cultural bias” di una comunità online ben definita.
Questo assunto è valido di fatto solo nell’ambito della vera e propria editoria online. Chi cura un blog personale e non ha alcun interesse a monetizzare ciò che pubblica, oggi come dieci anni fa, può scrivere tranquillamente di quel che gli pare e come gli pare, consapevole che lo potranno leggere in 12 come in 1000 e non farà alcuna differenza.
(@camillomiller)
Gennaio 4th, 2014 at 11:48
A questo punto se qualcuno sostiene ancora che il problema è che non hai aggiunto “recensione” alla ricerca o è duro di comprendonio o è accecato dal tifo fideistico.
Gennaio 4th, 2014 at 12:38
Ho digitato Grande Bellezza su Google perché volevo vedere il trailer ufficiale del film su YouTube.
Che scandalo: non è tra i primi dieci risultati!
Ho dovuto girare pagina per trovarlo in undicesima posizione.
Un chiaro segnale della nuova politica commerciale adottata da Google: penalizzare i propri servizi (YouTube appunto) per costringere gli utenti a scorrere più pagine del motore di ricerca esponendosi quindi alla visione di più annunci pubblicitari.
Davvero subdoli questi americani…
Gennaio 4th, 2014 at 15:55
Mante, hai pubblicato il contributo di uno che esordisce dicendo che chi non è d’accordo con te è affetto da fideismo strisciante nei confronti di Google, va avanti portando tra gli argomenti a supporto delle sue tesi il fatto di conoscere cosa avevano in mente Brin e Page quando hanno sostituito Schmidt (e certo), e conclude dicendo che se la situazione è brutta nelle ricerche in lingua inglese, in italiano è anche peggio perchè il web in Italia fa schifo (signora mia). Non mi sembra il modo migliore per chiudere una discussione.
Gennaio 4th, 2014 at 16:01
@Massimiliano ho pubblicato un contributo che mi sembrava interessante, non perché sposasse le mie tesi (del resto molto contestate e discusse in rete in questi giorni). A me sembra una maniera normale di chiudere. In ogni caso visto che lo spazio qui non manca, mi arrivasse qualcosa del genere che contesta le mie tesi (e quelle di camillo) lo pubblicherei molto volentieri
Gennaio 4th, 2014 at 16:31
…e vogliamo parlare di come Google Analytics sia diventato per i fanatici dl marketing la Bibbia insostituibile dei dati della rete? Come è potuto accadere che si cedesse a un’azienda privata, non certo super partes poiché vive di pubblicità, la misurazione – discutibilissima – dei siti per misurare il loro valore commerciale? Dai commenti ai siti che passano dal plugin di Facebook, alle ricerche interne dei siti che passano per google, alle misurazioni delle traffico, stiamo cedendo a Google e Facebook (e ad Amazon, Apple, ecc. Per altre cose) la nostra piccola libertà. Tutti inevitabilmente tesi a ricercare la chiave che funziona per Google (e i lettori?), dimenticando che ogni volta che lo usiamo e facciamo usare Google guadagna dal nostro passaggio. Credo che, pur nella maniera discutibile dalla quale é partito Mante (la “ricerca pura astratta” che non esiste più da tempo), abbia tuttavia sollevato delle questioni enormi ed importanti, sulle quali dovremmo un po’ tutti rivendicare attenzione. La nostra libertà e quella della rete dipenderà anche da quanto saremo in grado di non affidarla nelle mani di un unico grande – persino se buono e generoso – interlocutore.
Gennaio 4th, 2014 at 18:35
@massimiliano
Ho messo quel primo punto per chiarire subito la mia posizione. Mi sembrava il modo più onesto per aprire una lista abbastanza lunga che avrebbe meglio illustrato la mia opinione, perché di tale si tratta. Non c’è nessuna conseguenza fra la prima frase e il fatto che vi sia un fideismo strisciante nei confronti di tutto ciò che Google fa, molto meno esplicito e manifesto rispetto ad altri ambiti.
Non ho scritto che chi dissente dalla mia opinione e da quella di Mantellini sia un adepto della chiesa di Google.
Non ho scritto che il Web in Italia fa schifo. Ho scritto che i grandi player del Web italiano (che, o mio Dio lo sto dicendo davvero, avrebbero finanche un dovere educativo per le posizioni culturalmente rilevanti che occupano) sono i primi a non capire le dinamiche e a ritenere superflue le regole di base della netiquette e del Web più in generale.
Io sono contento che Massimo abbia fatto quella ricerca “imperfetta”, perché ha reso molto più efficace l’esempio.
La maggior parte degli utenti fa la ricerca di Massimo. Otterrà risultati che Google decide essere importanti per lui, sulla base di fattori che quell’utente non conosce, non conoscerà, non può conoscere.
Chi risponde (ci sono anche commenti stizziti, agli altri post) che il problema è solo l’inettitudine di chi non sa cercare, esclude automaticamente Google dall’equazione e lo giustifica.
Giustifica, in altre parole, il fatto che Google imbocchi a milioni e milioni di utenti dalle conoscenze poco avanzate (per i quali Google è il Web) risultati che Google ritiene importanti.
Tali risultati sotterrano contenuti assai rilevanti, di livello elevato, a cui l’utente non giungerà mai per altre vie. Questa azione, che si ripete miliardi di volte per miliardi di chiavi, fa si che per quell’utente ignaro, quelli siano i risultati cui può avere accesso. Se vuoi arrivare a quell’utente non devi scrivere la recensione che avresti voluto scrivere, secondo il tuo gusto e il tuo sentire, bensì il contenuto migliore per galleggiare in alto.
“Non puoi pretendere che Google ti legga nel pensiero”. Infatti io non lo pretendo. E’ Mountain View che sta cercando in tutti i modi di farlo e di formalizzare un metodo per farlo. E’ Google che, con questa storia della qualità, dei risultati funzionali a ciò che ho già visitato ecc… si è messo in testa di sapere cosa voglio più e meglio di prima. Non mi pare che la politica sia quella di educare gli utenti e fornire loro strumenti accessibili per migliorare le proprie ricerche e fargli capire che Google non è l’universo mondo della navigazione online (e ci mancherebbe, sarebbe controproducente e illogico).
Per questo ogni cambiamento algoritmico di Google non è più un cambiamento tecnico o roba da SEO experts, ormai, ma uno shift culturale che influenza tutti, perché modifica i risultati rilevanti per milioni di persone (la maggioranza) per cui Google è il Web.
Vuoi un altro esempio? Le correzioni automatica della ricerca che penalizzano, almeno alla prima ricerca (la più importante), qualsiasi brand, prodotto, libro, spettacolo che per un motivo o per l’altro condivide un nome molto simile ad un altra chiave molto più popolare.
Gennaio 4th, 2014 at 23:03
@Andrea
Ti ringrazio per aver chiarito meglio il tuo pensiero, provo a fare altrettanto con il mio.
Sono convinto che qualsiasi operazione di selezione di contenuti sia intrinsecamente imperfetta e suscettibile di miglioramento, in qualsiasi direzione (autorevolezza, novità, precisione e tutto quello che ci può venire in mente). E sono anche convinto del fatto che le scelte fatte da Google probabilmente sono guidate da criteri che mettono al primo posto la sopravvivenza e la redditività dell’azienda, e che la “qualità” dei risultati (supponiamo di essere tutti e due daccordo su cosa significhi) scenda spesso a compromessi con questi due fattori. Credo anche che una situazione del genere sia abbastanza normale in un contesto in cui questi servizi sono offerti a titolo commerciale (ovvero, devono in qualche modo generare soldi). Vale sul web, ma anche in altri luoghi, praticamente in tutti.
Fin qui, probabilmente, ho scritto cose abbastanza banali. Il punto però non credo sia nel gridare allo scandalo se Google ci presenta risultati di bassa qualità o se pretende che, per emergere, debbano essere realizzati in un determinato modo. Il punto è, ancora una volta, essere consapevoli dei limiti di questi servizi e agire di conseguenza. Io, per esempio, se devo cercare la recensione critica di un film, faccio riferimento a quelle due / tre persone che tengono un blog e parlano di cinema, oppure vado sul quel portale che so offrire recensioni che ritengo di qualità, oppure uso gli aggregatori. O magari, siccome mi accorgo che Google fa il furbo mettendo ai primi posti quello che gli fa comodo, provo a fregarlo con chiavi fantasiose (e magari non ce la faccio). Mi rendo conto che non sono soluzioni ottime e neanche alla portata di tutti, ma migliorano col tempo e finora sono convinto che siano difficilmente rimpiazzabili, viste le considerazioni che facevo all’inizio.
Per dirla in altri termini, più semplici, forse Google sta ai contenuti come Facebook sta al social. Per molti, i primi 10 risultati di una ricerca sono effettivamente tutto ciò che di interessante si trova in Rete su un argomento, così come magari sono convinti che le interazioni sociali in rete si limitino alle possibilità offerte da Facebook. La soluzione però non credo sia nel sollecitare politiche più orientate alla qualità, ma nel costruirsi alternative valide e aiutare gli altri a fare lo stesso.
E guarda che sono convinto di quanto ho scritto anche per ciò che riguarda SEO e argomenti simili: se Google penalizza il tuo sito nei risultati, forse la soluzione non sta nell’ottimizzazione esasperata delle pagine, ma nell’uso più consapevole della rete e delle sue dinamiche, senza passare per forza dalla prima pagina di risultati. Mi viene anche in mente che oggi una cosa del genere si fa molto meglio di 5 anni fa, periodo in cui probabilmente le cose stavano in un altro modo.
@Mante eccolo :) Forse però è un po’ OT su “i risultati di Google non sono più quelli di una volta”. E comunque, il rilevo sull’opportunità del contributo era sopratutto per il tono: forse era un po’ forte in alcuni passaggi, tenendo conto di un contesto un po’ esasperato.
Gennaio 5th, 2014 at 10:50
Un esempio di stamani.
Discutevo di provenienza delle banane e mi viene detto che Israele è uno dei maggiori produttori.
Per verificare vado su Google e scrivo:
“banane israeliane”. mi sembra una chiave sufficientemente ristretta.
Il risultato è che Google, per sua scelta, NON mi ha dato i risultati della mia ricerca ma quelli della chiave “banane brasiliane”.
Secondo lui quella chiave era ciò che io volevo realmente cercare.
Ditemi voi cosa ne dovrebbe trarre un utente medio che non ha gli strumenti per capire cosa sia successo.
Gennaio 5th, 2014 at 12:47
Scrive Andrea: “La maggior parte degli utenti fa la ricerca di Massimo. Otterrà risultati che Google decide essere importanti per lui, sulla base di fattori che quell’utente non conosce, non conoscerà, non può conoscere”.
Mi sembra un modo di pensare molto vecchio, da ‘old media’: l’utente passivo di fronte a mamma tv che si fa educare (o diseducare, se vogliamo).
Internet rappresenta una rottura sostanziale rispetto al passato perché trasforma l’utente in un soggetto attivo, in grado di fare delle scelte, informarsi e agire di conseguenza.
Se ci poniamo nei confronti di Google e degli altri attori del web con lo stesso atteggiamento passivo del vecchio spettatore televisivo non rinneghiamo proprio lo spirito rivoluzionaria di Internet che tutti (o quasi) a parole sosteniamo?
Oggi, rispetto al passato l’utente è molto più forte, ha tutti gli strumenti per informarsi, crescere e comportarsi in modo consapevole. Ma ha anche la responsabilità di farlo e non continuare a comportarsi in modo passivo, come davanti alla vecchia tv.
Gennaio 5th, 2014 at 13:05
P. S. Ho provato anch’io a cercare “banane israeliane” su Google. Il risultato: tre link, di cui uno sul boicottaggio delle banane israeliane nelle Coop e un’altro su un articolo di un giornale in cui si parla appunto di banane israeliane.
Digitando banane israeliane senza virgolette, Google in effetti propone i risultati relativi a banane brasiliane, ma subito suggerisce anche l’alternativa “Cerca invece banane israeliane”. E qui ci sono ben 164 milioni di risultati…
Anche l’utente ‘medio’ più passivo, insomma, è in grado di scegliere.
Gennaio 5th, 2014 at 13:51
@Claudio Bohm : rumore di unghie sugli specchi. Se cerco banane e lui mi propone pere, ma bontà sua, se proprio insisto mi consente persino di cercare quello che voglio, in seconda battuta però. Ma non è quello che Mantellini segnalava? cosa c’è complicato o ambiguo in banane israeliane?
Gennaio 5th, 2014 at 23:08
@Claudio Bohm ritorniamo sempre al solito discorso di “ci vuole una patente per usare il computer o internet?”.
Indubbiamente per le nuove generazioni una certa capacità nel ricercare cose attraverso i motori di ricerca, un minimo di concetto di discriminazione delle fonti, di autorevolezza, di controllo incrociato e via dicendo dovrebbe essere insegnata già a livello scolastico. Al tempo si insegnava come fare ricerche in biblioteca ora andrebbe insegnato come fare ricerche su internet detto in parole povere.
Sono concorde anche io che ogni cambiamento nel motore di ricerca ha una certa “responsabilità sociale”.
E siccome la società non è tutta competente nell’usare questo strumento ma è accessibile a tutti, anzi per molti è l’UNICO strumento per usare internet, il problema non è di poco conto.
Faccio un esempio veramente stupido ma per darvi un’idea.
Sul posto di lavoro c’è il rimborso chilometrico per le trasferte fuori dalla sede di lavoro. Alcuni colleghi prendono i km dell’auto e li segnano sul foglio, la richiesta viene rigettata con una motivazione simile a questa “su Google Maps ci sono 2 percorsi e il più corto dei 2 sono i km che devono essere segnati”. Nessuno strumento ufficiale eppure è preso come metro di paragone. Se Maps si mette a proporre una strada non più percorribile dall’oggi al domani?
Secondo esempio: ricerca veloce. Questo tipo di ricerca è fatta da tutti, dall’utente esperto all’utente occasionale. E’ un tipo di ricerca che è la più influenzata da queste decisioni. La veloce ricerca sulle banane ne è un esempio lampante. C’è chi con una certa velocità oramai automatica apre un tab, scrive, legge 2 righe di anteprima e chiude, ma magari Google intendeva altro. Anzi forse l’utente esperto potrebbe essere tratto anche in inganno data la sua “velocità di utilizzo” dello strumento.
Ultimo esempio senza nessun intendo di complotto anzi. Durante una campagna elettorale un elettore vuole informarsi in rete. Gli arriveranno notizie più legate all’attualità odierna oppure anche articoli un pochino più elaborati su quello che ha fatto un determinato schieramento politico durante i 5 anni di legislatura? 5 anni, un tempo già medio lungo per il mondo di internet.
La percezione può cambiare e di molto a seconda dell’algoritmo che Google implementa (senza motivo di complotto parliamoci chiaro, guarda piuttosto i suoi interessi) e potrebbe essere pure sfruttato dallo schieramento opposto.
Gennaio 6th, 2014 at 10:28
solo con dieci anni di ritardo
“Il semiologo e scrittore scrive al nipotino. Con una riflessione sulla tecnologia e un consiglio per il futuro: mandare a mente ‘La vispa Teresa’, ma anche la formazione della Roma o i nomi dei domestici dei tre moschettieri. Perché Internet non può sostituirsi alla conoscenza né il computer al nostro cervello”
(se il professore abilitasse i commenti)
http://www.mantellini.it/2014/01/02/il-new-york-times-va-a-canossa/#comment-99575
[..] In realtà l’illusione di un mondo senza confini, uno spazio internettiano libero e democratico, gestito dai Padri Fondatori (ndr: di Google), oggi mostra tutti i suoi limiti. La Googlecrazia aveva promesso di liberare il mondo dalle frontiere, dai governi, dalle catene, e invece si ritrova implicata (suo malgrado?) in una partita strategica più ampia.
La censura in Cina, l’ipocrisia del filantropismo cool, la distruzione dei tradizionali metodi d’insegnamento
[..] incapaci di elaborare una visione etica del mondo che non sia la loro e solo la loro. La ‘versione di Google’
una precisa collocazione politica: numerosi siti conservatori sono stati oscurati
[..] liberal-comuisti che tengono più di tutto a se stessi. Inguaribili relativisti, stanno perdendo anche la memoria della propria identità, della storia e delle tradizioni americane. Oggi gli studenti dei college ricordano la data dell’Indipendenza degli Stati Uniti solo fino a quando sono connessi. Tanto c’è Google. Un “futuro senza libri” e un “sapere privatizzato” (New Republic). Abbiamo i fatti, li abbiamo tutti, ma non abbiamo più un punto di vista. E se lo abbiamo è quello di Google.
Gennaio 6th, 2014 at 17:49
A proposito di citazioni:
“Davvero Google trova quello che noi cerchiamo?” si chiede provocatoriamente la comunità Ippolita. E la risposta, altrettanto provocatoria, è: no. “Google offre la possibilità di trovare fra le prime pagine dei risultati quello che l’utente medio cerca, ma non quello che io sto cercando. Il risultato è tecnologicamente impressionante, ma porta con sé l’idea che quello che cerco sia esattamente quello che Google mi offre. Non è così. Ormai non è più Google che si adegua alle mie esigenze, ma io che mi adeguo a quelle dell’utente medio”.
“Google è di fatto un monopolio”, prosegue Ippolita, “e il suo modello di business funziona se tale rimane, ma è fragile. Non perché esistano attualmente dei validi sostituti, ma perché gli utenti possono essere informati, diventare più consapevoli e quindi scalfire quell’immaginario che fa di Google il non plus ultra, ma su cui si basa essenzialmente il suo successo”.
la Repubblica, 2-9-2006
Gennaio 6th, 2014 at 20:00
Quell’articolo di Repubblica del 2006 contiene infatti un’evidente contraddizione
“Google è di fatto un monopolio”: è mediatore culturale, è l’immaginario. Gli utenti non possono essere informati.
[..] La fantascienza cyberpunk può dirci molto su questa tecnocrazia del mainframe che ha domato l’umanità, costruendo una società piramidale da cui è impossibile evadere. Verrà il tempo in cui il gigante si ribellerà ai suoi fondatori e la macchina sostituirà l’uomo. Come disse una volta Craig Silverstein, il più visionario dei guglocrati: “Vorrei vedere i motori di ricerca diventare come i computer di Star Trek. Tu parli con loro e loro capiscono quello che vuoi” La dichiarazione risale al 1999
la risposta arriva forse nel 2008: Noè l’autarchico
[..] Come dicono gli autori del collettivo milanese Ippolita, l’unica risposta all’invadenza di Google nella nostra vita quotidiana è l’autoformazione. Imparare, da soli, anche sbagliando, a usare il Motore in modo critico. Valutare il grado di verità e scorrettezza di una notizia. Creare un proprio alter ego digitale consapevole, che sfugga al diluvio informatico.
Gennaio 6th, 2014 at 20:37
oggi Google è anche sistema IL sistema operativo, leader mondiale del segmento smartphone, obbligando gli utenti alla creazione di un’ID google.
[wiki] ComputerWorld ha riportato in un articolo che le condizioni d’uso di Android e dello store delle applicazioni prevedono che “nel caso in cui un qualsiasi prodotto violi l’accordo di distribuzione con gli sviluppatori, Google si riserva il diritto di rimuoverle da remoto su ogni dispositivo a propria discrezione”
c’è un altro modo per fregare Google: usare tutti lo stesso account di registrazione, un account civetta. Mi fido più di Massimo, di Claud, di Andrea, di Massimiliano,di Giancarlo, che di Google
e Google non saprà più chi è l’utente.
condivido comunque le riflessioni del collettivo Ippolita, ma la risposta che mi ha convinto di più è stata questa, dell’attivista Daniel Brandt, una risposta tecnica
https://it.wikipedia.org/wiki/Scroogle
L’attivista americano Daniel Leslie Brandt ha aperto una serie di siti violentemente iconoclasti (GoogleWatch, Scroogle, WikipediaWatch) che riproducono le informazioni della Casa Madre depurandole di cookie, pubblicità e controlli troppo lesivi della privacy. Secondo Brandt, Google non è al di sopra della legge, è l’unica Legge.